il reportage

Tra i parenti delle vittime del Supernova Festival, dove la memoria è fatta di rabbia

Micol Flammini

Un cassone della spazzatura trasformato in culla, una canzone lasciata a metà. La memoria a Re’im non cura, deve far male

Re’im, dalla nostra inviata. Le note salgono, salgono, salgono. Una ragazza sembra averle nelle gambe, accenna un movimento, un altro movimento, le ricorda, le ripassa, poi all’improvviso una nota si rompe, cade muta, soffocata. Lei rimane in sospeso, verso l’alto un braccio aspetta altra musica, non arriva. Il ballo nelle sue gambe si trasforma in tremore, convulso, martoriato. Il suono della musica si converte in un urlo acuto: sembra una sirena, invece è il ricordo che esce impietoso da questa canzone che non finirà mai più, rimarrà immobilizzata in quel punto esatto in cui l’attacco di Hamas l’ha troncata. Non dovrà più andare avanti, è incorniciata in un minuto netto di felicità ormai inafferrabile: ora è intoccabile, serve a conservare il dolore, a tenerlo vivo e l’urlo della ragazza sulle note scomparse, il suo tremore che le scuote il corpo fino a buttarla a terra, sembrano una richiesta: mandatela avanti, fatela finire questa canzone, alzate il volume, fatelo sentire fino a Gaza, coprite le sirene, coprite i razzi, coprite i bombardamenti, cancellate, vi prego, il 7 ottobre. 

 

Non si cancella, è ormai sparso sulla sabbia di Re’im, in cui tutto è testimone dei terroristi all'attacco annunciati dai razzi, planati dal cielo con i deltaplani, arrivati in corsa sui pick up, sulle motociclette, sui trattori. Re’im era uno spazio di libertà, dove con il Supernova Festival si dovevano celebrare la pace, la vita, la giovinezza; dove i ragazzi, sobri, ubriachi, fatti, stanchi o insonni, aspettavano l’alba ballando e non sapevano che i terroristi avrebbero trasformato la gioia in trappola, la musica in paura, il ballo in corsa disperata. Tutto deve essere ricordato, ogni spazio della spianata oggi è un museo: Re’im è il monito, è la rabbia, non serve a placare, non deve placare. I genitori arrivati all’alba si abbracciano, piangono, stringono chiunque e l’abbraccio sembra una scossa: non lenisce, è una moltiplicazione del dolore. Sono qui per ricordare e non riservano a questo 7 ottobre e a questa terra il ruolo del cordoglio, di una memoria che può alleviare: il ricordo di Re’im deve fare male a loro, al paese, al mondo. I volti dei trecentosessantacinque ragazzi uccisi spuntano dalla sabbia, una madre spolvera la foto di suo figlio, la terra di Re’im è marrone, leggera, sporca tutto. Dopo aver pulito, si volta e prosegue con gli altri: va avanti lenta, meticolosa, con le immagini dei figli di tutti. 

 

 

Yoram Yehudai ha voluto che anche a Re’im ci fosse una commemorazione, quando parla del posto, lo chiama museo e in questo museo lui ha un dettaglio particolare da curare: “Mio figlio Ron aveva ventiquattro anni, alle 8.30 del mattino si è gettato con due amici in questo contenitore di rifiuti. I terroristi erano arrivati dalla strada principale e avevano iniziato a sparare”. Yoram parla davanti a quello che doveva essere un grande contenitore per i sacchi della spazzatura, di quelli che si trovano nei cantieri, nelle discariche. E’ giallo: “C’erano due cassoni come questo: uno era strapieno con lo sportello chiuso, l’altro era a metà con lo sportello semiaperto. Ron con i suoi amici e altri ragazzi è entrato qui. I terroristi erano intorno, sparavano ovunque, poi ne sono arrivati altri, hanno circondato i contenitori”. Yoram sapeva tutto, anche i genitori degli altri ragazzi sapevano: continuavano a scambiarsi messaggi che oggi sono impressi dentro alle pareti di quello che era stato il cassone della spazzatura. Un amico di Ron era riuscito a mandare la posizione alla polizia e all’esercito: “Non è arrivato nessuno. Alle 11.47 un terrorista ha iniziato a sparare contro il cassone: ha ucciso nove bambini, ne sono sopravvissuti sette”. Yoram chiama Ron “bambino”, come se nella sua memoria il ventiquattrenne fosse tornato indietro nel tempo, in un’epoca prima del 7 ottobre, rimpicciolito, indifeso, rarefatto. “I soldati sono arrivati dopo le 12.30 a salvare chi era rimasto. Poi le istituzioni hanno impiegato sette giorni per dirci cosa era successo a Ron, lo sapevamo già, ce lo aveva detto un suo amico, ma le comunicazioni formali sono arrivate con una settimana di ritardo”. I superstiti avevano raccontato a Yoram che quel giorno Re’im era coperta di corpi. Un mese dopo l’attacco, anche lui era voluto venire a vedere dove avevano ucciso suo figlio. Appena arrivato ha cercato attorno una cosa sola: quel bidone della disperazione in cui suo figlio era morto tra i sacchi della spazzatura. “Non c’era più, volevo vederlo, ho poi saputo che era stato portato via due giorni dopo il massacro. Mi sono messo a cercarlo ovunque e l’ho trovato in un altro posto, continuava a essere usato come un normale cassone per i rifiuti. Un bidone in cui sono stati uccisi nove bambini non è più un bidone normale”, lo dice cercando approvazione, quasi scrutando se anche chi ha davanti riesce a capire quello che Yoram non dice con le parole: l’enorme cassone giallo in cui Ron è stato ucciso per suo padre era diventato la culla orribile del cadavere di suo figlio. “Ho promesso a Ron che ne avrei fatto un monumento, ho rintracciato il proprietario e assieme all’artista Amir Chodorov l’ho reso quello che è ora”, una sala aperta con all’interno, stampati sulla parete, gli ultimi messaggi scambiati dai ragazzi prima di morire e per terra, coperti da una teca, alcuni resti di quei rifiuti che avevano toccato i loro corpi: stracci, scatole di tonno, contenitori per detersivi. Per Yoram è importante vedere dove è morto suo figlio, fissare questo posto, sapere sempre dove trovare il container in cui è stato trovato Ron. La memoria a Re’im non serve a commemorare, a onorare: la memoria è un’azione mista a rabbia, è un movimento continuo con cui si soffre e si tiene in vita chi la vita non ce l’ha più. Qui la memoria è un dovere e non soltanto per la famiglia di Ron, “è importante che nessuno dimentichi questo giorno tragico per il massacro e per il fallimento”. Yoram parla dell’esercito, anche lui, come Ron, ha fatto il servizio militare: “L’esercito ha fallito, sappiamo come lavora, sarebbe dovuto arrivare subito a salvare i civili, ma non l’ha fatto”. Re’im è anche il museo del fallimento, nulla deve essere dimenticato, neanche la speranza tradita di chi credeva nei soldati, nella polizia, nell’intelligence o la sfiducia di chi aveva immaginato che il mondo si sarebbe schierato dalla parte di Israele: “Noi abbiamo solo questo posto in cui vivere, dovremmo forse tornarcene in Polonia o in Germania? I miei genitori erano ebrei iraniani, dovrei forse andarmene in Iran? – chiede Yoram – Un anno è troppo, la soluzione del conflitto a Gaza non riguarda soltanto noi, serve una pressione internazionale e invece tutto quello che hanno da dire è ‘all eyes on Rafah’”. 

 

 

Il 7 ottobre molti ragazzi morirono lungo la strada 232, l’unica che porta ai kibbutz del sud. Dopo i razzi, iniziò la corsa verso le macchine, le macchine finirono in un ingorgo mortale, i passeggeri vennero freddati dopo una curva dietro alla quale si erano appostati i terroristi: li aspettavano con le armi puntate. La curva è pericolosa anche oggi, un cane è morto lungo la strada, su una parte rialzata del percorso una famiglia è seduta sotto la foto di Liraz, era anche lei al festival. Sua madre Rivka sa esattamente a che ora è morta: “Eravamo al telefono, mi ha detto ‘sparano’. E’ scomparsa”. Era stata dichiarata scomparsa per quattro giorni, per dodici giorni è stata inserita nella lista degli ostaggi, “per seppellirla c’è voluto un giorno solo”. Sotto alla foto di Liraz c’è una panchina, è lì che parlano i suoi parenti, in questo memoriale che oggi sembra un luogo delle confessioni. Non ci sono lacrime, solo ricordi ripetuti, salmodiati, perché il tempo a Re’im non deve curare la perdita. Non distante c’è un simbolo della pace fatto di fiori, dietro si vede Gaza, è distrutta: è tutta la mattina che la terra non smette di tremare. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)