Sul fronte nord di Israele

Hezbollah cerca un leader e prepara la scissione dalla guerra di Gaza

Micol Flammini

Il secondo discorso di Naim Qassem apre a un cessate il fuoco, poi l'attacco a Haifa con una furia mai vista. Le parole di Netanyahu ai libanesi: "Liberate il vostro paese così vivremo in pace"

Haifa, dalla nostra inviata. Non accadeva dal 2006 che Haifa venisse attaccata con tanta potenza e anzi, nel 2006 Hezbollah, a cadenza di circa tre lanci al giorno, non era mai arrivato a mandare 105 razzi in una furia durata  meno di trenta minuti contro la città che fino a un mese fa rappresentava una linea rossa invalicabile, protetta dalla convinzione che il gruppo armato mai sarebbe tornato a colpirla. Le linee rosse si assottigliano e cambiano colore in medio oriente e Haifa sta conoscendo attacchi continui, sempre più frequenti, ma mai come ieri la memoria della città era stata trasportata  indietro di diciotto anni. Oggi però, quando Hezbollah lancia, Haifa sente una presenza non trascurabile su cui non poteva contare nell’ultima guerra contro il gruppo: ora c’è l’Iron Dome, la cupola di ferro che intercetta missili e razzi e riesce a evitare, il più delle volte, i danni più grandi. Spesso per bucare le difese, Hezbollah punta sul numero, ma mai aveva osato un attacco tanto massiccio. Haifa ha molti punti particolarmente sensibili e anche gli attacchi di ieri erano perlopiù diretti verso la zona industriale, dove si trovano stabilimenti petrolchimici e raffinerie, posti non lontano dal porto. Se un razzo riuscisse a colpire uno di questi punti i danni sarebbero enormi per la popolazione e per l’ambiente.  

 


Le autorità della città hanno detto di aver ormai rimosso tutte le sostanze chimiche più dannose, ma la debolezza rimane ed è lì che Hezbollah punta.  Nessuna città in Israele ha imparato come Haifa ad ascoltare negli anni  i discorsi del vecchio leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, eliminato da Tsahal  a fine settembre. Nessuna città ha imparato quanto Haifa a decifrarli. Ieri però a parlare non era Nasrallah, era Naim Qassem, uno degli uomini rimasti della leadership del gruppo che, da personaggio poco seguito e poco carismatico, si è trovato a tenere due discorsi nel giro di una settimana nel tentativo di dimostrare che Hezbollah resiste, è forte ed è pronto a terrorizzare Israele. Il primo discorso di Qassem era stato soprannominato “il discorso del sudore”: era  chiuso in una stanza continuava a sudare mentre con la voce strozzata intimava che il gruppo non si sarebbe lasciato piegare dagli omicidi mirati né dall’ingresso di Tsahal in Libano. Ieri ha parlato dalla stessa stanza, un rifugio buio, ma meno accaldato e mettendo nella voce più intenzione e protervia. E’ rimasto l’ultimo volto del gruppo, dopo che Israele ha eliminato uno alla volta i leader più importanti, arrivando anche al presunto successore di Nasrallah, suo cugino Hassen Safi al Din, ai comandanti, agli organizzatori dei trasferimenti di armi e nel mezzo di questo lavoro meticoloso per liquidare la catena di comando, Qassem cerca di proiettare un’immagine di resistenza. Ieri ha assicurato che presto verrà scelto il successore di Nasrallah; che il gruppo resiste; che gli israeliani temono molto Hezbollah; che i danni nel nord del territorio dello stato ebraico, dove il gruppo bombarda da ormai un anno, sono ingenti e non permetteranno il ritorno dei cittadini; che il senso di sicurezza degli israeliani è ormai minato per sempre. Non era questa però la parte più interessante del discorso: Qassem ha parlato esattamente un anno dopo che Hezbollah si è unito a Hamas aprendo il fronte al nord di Israele.

 

Da quel giorno, Nasrallah aveva sempre legato le azioni del gruppo a quello che accadeva nella Striscia di Gaza, aveva accettato il cessate il fuoco nel novembre scorso, quando anche Hamas lo aveva accettato; aveva poi promesso di continuare a combattere senza fermarsi fino al ritiro di Israele da Gaza. Non aveva però mai preso in considerazione che lo stato ebraico avrebbe cambiato l’equazione concentrandosi proprio su Hezbollah. Qassem ha definito l’attacco di Hamas legittimo, l’ha lodato, ma poi ha detto che il gruppo assiste “la campagna palestinese”: la differenza tra assistere e partecipare è molto grande per il gruppo che fino a questo momento aveva giurato che mai avrebbe accettato un cessate il fuoco con Israele senza la fine della guerra a Gaza. Qassem invece ha fatto un passo indietro, rivelando che il compito di Hezbollah e quello dell’Iran è di fatto dare una mano, ma non intestarsi la battaglia, ha creato una crepa nel sedicente asse della resistenza, si è slegato dalle decisioni di Hamas anche  cercando una scappatoia per i suoi  che non riescono a riorganizzarsi e hanno perso ogni credibilità per spiegare ai loro sostenitori perché mai dovrebbero unirsi, partecipare e subire le conseguenze di una guerra iniziata da Hamas. Una delle maggiori manifestazioni di debolezza è venuta da un nome: Qassem ha detto di sostenere gli sforzi per un cessate il fuoco di Nabih Berri, il presidente del Parlamento libanese e capo del movimento Amal, un’altra formazione sciita, di cui finora Hezbollah aveva cannibalizzato il sostegno e a cui ora sembra appoggiarsi.  Poco dopo che Qassem aveva finito di parlare, è cominciato l’attacco di Hezbollah contro Haifa – soltanto una donna è stata ferita. 

 

In Libano si cerca instancabilmente una soluzione politica, l’unica in grado di cambiare per sempre la situazione nel paese e ricucire la rottura istituzionale in cui Hezbollah ha prosperato. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è rivolto ai cittadini libanesi, proprio come la scorsa settimana aveva fatto con gli iraniani. “Vi ricordate quando il Libano veniva definito la perla del medio oriente? Io me lo ricordo… Hezbollah lo ha trasformato in una riserva di armi”, ha detto Netanyahu. “Liberate il vostro paese da Hezbollah, così vivremo in pace”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)