Le commemorazioni per il 7 ottobre alla Sinagoga di Milano - foto Ansa

mi difendo, dunque sono

Non si può ricordare il 7 ottobre senza ricordare i soldati e le soldatesse di Tsahal

Giuliano Ferrara

Trecentosessantaquattro persone in questi mesi hanno combattuto con valore per la libertà: la nostra e la loro. Non dimentichiamoli. E ringraziamoli

Pubblichiamo il testo dell'intervento di Giuliano Ferrara, dedicato al 7 ottobre, tenuto lunedì in Sinagoga a Milano.
 


 

Grazie alla comunità ebraica di Milano e grazie a tutti coloro che hanno partecipato a questa manifestazione di ricordo, di commemorazione. Un anno dopo quei fatti siamo riusciti a parlare del dolore, il dolore lo abbiamo affrontato in mille modi diversi secondo i suoi mille volti diversi. E abbiamo fatto bene, è stata una cosa intensa, profonda. Io ho sentito una stretta non sentimentale, non emotiva, una stretta anche intellettuale e mentale. Ed è santo e benedetto che questo avvenga. Però il dolore nella sua essenza, nella sua natura, come tutti sappiamo è indicibile. Praticamente non se ne può parlare. Il dolore è talmente forte, un dolore come quello del giorno del 7 ottobre, un dolore di fronte alla fine della pietà, all’irrisione della pietà, all’insulto alla pietà. Beh, quel dolore è veramente molto difficile da mettere a tema. 
E’ stato detto con cura e con cura morale, per esempio a proposito dell’immediato antecedente del 7 ottobre, cioè della Shoah, che di fronte ai nomi che precedono Kfar Aza e Nir Oz e che sono – come sappiamo tutti – Treblinka, Dachau, Bergen Belsen, Auschwitz – di fronte a tutto questo non ci si può chiedere perché è successo. Ci si può limitare, come abbiamo cercato di fare stasera, a descrivere come è successo. Nella realtà oggettiva, nella esteriorità, nella storia e dentro di noi. Come è successo, come si è sviluppato, come è cresciuto, come ci ha cambiato, come diceva il rabbino capo Arbib, il dolore è l’unica cosa che possiamo fare. 

Da piccolo agente sionista, da piccolo giornalista italiano, io devo dire una cosa alla quale credo profondamente: abbiamo dimenticato un particolare. La nostra è una ricostruzione politica, inevitabilmente, non è una manifestazione politica, non dobbiamo affermare di essere a favore o contro il governo, a favore o contro i partiti della coalizione che lo compongono e che lo guidano. A favore o contro il primo ministro. A favore o contro il ministro della Difesa. Non è questo. E anche nella proiezione politica di ciò che noi abbiamo cercato faticosamente di dire a proposito del dolore che riguarda i nostri paesi non è un problema di partito e di posizione politica. Però c’è un punto. Abbiamo parlato del ritorno e della moltiplicazione dell’antisemitismo. Abbiamo parlato di questa cosa mostruosa che si è risvegliata sotto i nostri occhi. E che non avrebbe dovuto stupirci oltre misura per come sono educati i ragazzi nelle nostre scuole. Per come si è corrotta la materia principe nelle scuole, nelle università, nel paese più importante, negli Stati Uniti d’America, nelle università più importanti, più ricche, per come si è riprodotta lì la questione ebraica come questione di discriminazione, di odio, di intolleranza. Però il punto vero è che noi dobbiamo ricordare il massacro, ricordare una cosa che non ci abbandonerà mai nella vita. E al tempo stesso, cercare di capire che cosa ci dà la possibilità di continuare. Cercare una speranza non retorica. 

Io vorrei poi ricordare i trecentosessantaquattro soldati e soldatesse di Tsahal che in questo anno hanno combattuto con valore per la libertà. Sono stati ostaggi anche loro in questa bruciante, drammatica circostanza nella quale tutti siamo stati messi. Sono ostaggi. Fanno parte di quel panorama di scudi umani dietro i quali i predoni e i terroristi di Hamas si sono nascosti. Fanno parte di quell’Israele delle professioni, dell’imprenditoria, della ricerca, della scienza, dell’agricoltura, della vita civile che è stata sequestrata per un anno ancora una volta dopo la Guerra di indipendenza, dopo la Guerra dei sei giorni, dopo la Guerra dello Yom Kippur, dopo una infinita serie di minacce che hanno circondato questo paese e sono stati rinserrati in questo famoso cerchio di fuoco. Il cerchio di fuoco con lo Yemen al sud, con la Siria, con l’Iraq, con il Libano degli Hezbollah di cui si può dire che insomma, visto come sono andate le cose il 27 settembre ,abbiamo almeno la consolazione del fatto che attualmente nessuno vuole diventare il capo degli Hezbollah: rifiutano il seggio. 

La guerra è un’offesa a chi la fa oltre che a chi la subisce. Non nel caso dei terroristi di Hamas, che l’hanno fatta gioiosamente telefonando a casa loro e dicendo: “Mamma, ho ucciso undici ebrei, ho compiuto una cosa eroica per la quale dovrei fare la festa, tagliare la torta”. La follia del fanatismo, che è tutt’altro che una religione e che perverte l’islamismo politico allo scopo di uccidere, di ammazzare, di torturare, di massacrare nella forma che sappiamo gli innocenti civili, bè, questa follia richiama e reclama da parte di Israele, che non è vittima ma stato militante che difende l’insieme dell’occidente, un’innocenza che non perdona. 

Non esiste perdono, lo dico da cristiano, perché io sono cristiano culturalmente, non sono ebreo. Lo dico da cristiano: il perdono segue la giustizia, non la precede e non la costruisce, e questa è una legge non religiosa, ma civile. Israele doveva fare questa cosa, ed è una croce, anche questo lo dico da cristiano, che sta sulla testa di Israele, di chi la dirige, di chi la ama, di chi la vive e di chi l’ha portata con le divise nei cieli a bombardare sulla terra, nei carri armati, a dare e a subire la morte e questa guerra tremenda, spaventosa, che nessuno avrebbe voluto vedere, con questa terribile conseguenza di morte che ha riguardato decine di migliaia di civili, questa guerra che si poteva evitare. Anche qui chiedersi perché nasce da un bisogno profondo di giustizia. Il problema è la sopravvivenza di Israele sì, ma la sopravvivenza di Israele potrebbe essere un fatto geografico politico antropologico, si vedrà, si troverà un’altra sistemazione. 

Se io dovessi parlare con uno di quei ragazzi inconsapevoli e stupidi che sono scesi in piazza per gridare quegli slogan folli in compagnia di una razzaccia tremenda che è quella dei violenti e di coloro che odiano lo stato, la polizia e che vogliono fare violenza nelle strade delle città italiane. Se dovessi parlare con lui, direi: devi imparare a sognare, devi imparare a capire che il sionismo non è un’ideologia colonialista, è un movimento nazionale di riscatto e di amore per l’esistenza, l’autodifesa e l’autoemancipazione e promozione di un grande popolo. Devi imparare a sognare e a studiare al tempo stesso il sogno lungo il perimetro della storia, capire che gli ebrei non sono quelli che sparano col mitra ai nuovi proletari del mondo, e cioè i palestinesi. No! Gli ebrei sono stati il sale della terra per generazioni e generazioni, sono stati una benedizione. E sono stati una benedizione per tutto. Per la musica, per la letteratura, per la scienza. Qualcuno ha osservato che i vaccini portati contro la poliomielite nei vicoli martoriati di Gaza sono stati inventati da un ebreo.

Gli ebrei sono praticamente tutto un miscuglio di caratteristiche diverse, che ha attraversato e ha fissato una delle radici, una delle identità più importanti nella storia del mondo e della civiltà. Ora a questi ragazzi bisogna dire questo: che cos’è un movimento di riscatto nazionale, che cos’è un esodo, che cos’è un tentativo di occupare in terre coloniali, in termini di rivolta anticoloniale, i paesi del mandato britannico, uno spazio nazionale nuovo. Allora, il problema vero è che si ha bisogno di un dirimpettaio. Due popoli e due stati è una formula che va benissimo, ma si ha bisogno di un dirimpettaio. Il vero grande problema è che il mondo invece di chiedere ai palestinesi, agli arabi, che in parte lo hanno capito, di costruire le condizioni per la caduta dei regimi e del regime, l’Iran, che ha costruito questo cerchio di fuoco intorno a Israele, hanno chiesto a Israele il cessate fuoco.

Ora scusatemi, io sono per natura a favore del cessate il fuoco, vorrei che il fuoco non cominciasse nemmeno. Ma non si può chiedere a Israele di condurre una guerra drammatica, sanguinosa, disperante nel segno di una ricerca di giustizia per coloro che sono stati massacrati il 7 ottobre… ma più in generale per un paese che è stato sottoposto a uno choc, a un trama di quelle proporzioni, non si può chiedere a Israele di “restrain”, come dicono alla Casa Bianca e al Dipartimento di stato, non gli si può chiedere di contenersi. Il presidente francese non può dire: non ti do le armi, Non va bene. E’ una cosa che non va bene. A Israele bisogna chiedere di essere profondamente fino in fondo sé stesso. E’ stato ed è un paese straordinario, che ha saputo cercare di costruire con Rabin, con tanti altri che ricordo con affetto e con amore e che sono stati vittime anche loro del fanatismo che anch’esso alligna nella società israeliana, ha cercato di costruire una prospettiva di pace, ha cercato di fare emergere, figuriamoci un po’, dall’abisso in cui era franato, dal popolo palestinese, o da quello che ne era rimasto, un simulacro di statualità, e non c’è riuscito. E’ il paese che ha cercato in tutti i modi di costruire le condizioni di equilibrio internazionale perché la guerra non fosse più l’elemento dominante del medio oriente e dello scenario che riguarda soprattutto i suoi confini. Bene, non ce l’ha fatta, ci vorrà ancora il lavoro probabilmente di generazioni per portare la pace in quelle terre, però finché la pace e la giustizia non saranno fatte, di Israele va detta una cosa – me l’ha ricordata Sharon Nizza – che diceva Herbert Pagani, grande attivista della causa ebraica e cantante anche frivolo: “Mi difendo, dunque sono”.
 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.