Gli hibakusha al G7 di Hiroshima del 2023 (foto di Giulia Pompili)

il riconoscimento

Un Nobel contro la Bomba

Giulia Pompili

Il premio per la Pace agli hibakusha. La memoria giapponese contro chi oggi minaccia con le armi atomiche: Russia, Iran e Corea del nord

Sono passati sette anni da quando l’Accademia norvegese assegnò il Premio Nobel per la Pace all’Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, l’ong che scrisse e promosse il Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Sette anni dopo il Nobel per la Pace torna sul tema e oggi ha premiato la Nihon Hidankyo, l’associazione giapponese più importante e influente degli hibakusha, una parola che significa letteralmente “vittima della Bomba atomica”. Sono i sopravvissuti a Hiroshima e Nagasaki, premiati, si legge nelle motivazioni, “per il loro impegno a realizzare un mondo libero da armi nucleari e per aver dimostrato, attraverso la testimonianza, che non devono mai più essere usate”. Il riconoscimento arriva alla vigilia di un importante anniversario, perché nel 2025 saranno passati ottant’anni dal primo, duplice e unico uso di armi nucleari in una guerra. Gli hibakusha sono un’istituzione in Giappone, perché per decenni hanno portato avanti la memoria di quell’agosto del 1945, ma sono sempre meno: a metà degli anni 50, il governo giapponese riconobbe circa 650 mila sopravvissuti alle due Bombe atomiche, ma secondo gli ultimi dati della Nihon Hidankyo ad essere ancora vivi sono in 114 mila.

 

In Giappone c’è un prima e un dopo Hiroshima e Nagasaki. E’ parte fondamentale della memoria collettiva nipponica, e spiega gran parte delle decisioni politiche anche a ottant’anni di distanza. Nel maggio dello scorso anno l’ex primo ministro del Giappone, Fumio Kishida, in occasione della sua presidenza di turno del G7, decise di portare i leader delle grandi economie del mondo nella sua città natale, Hiroshima. La fotografia che ne venne fuori, con ospite d’onore  il presidente ucraino Volodymyr Zelensky,  fu molto potente: la politica internazionale – compreso il presidente americano Joe Biden – era riunita davanti al Memoriale della Pace di Hiroshima, a pochi metri di distanza dalla cupola della Bomba atomica, lasciata così com’era rimasta dopo l’esplosione,  simbolo indelebile delle conseguenze dell’uso delle armi atomiche. 

 


Nelle stesse ore in cui i leader globali si riunivano al Memoriale della Pace, a poche centinaia di metri di distanza, nel centro di Hiroshima, un gruppo di persone protestava: in prima fila c’erano diversi hibakusha – si riconoscono perché nelle occasioni ufficiali indossano una fascia istituzionale al collo – che guidavano il corteo. La piccola manifestazione era stata organizzata perché gli hibakusha volevano una voce, ma soprattutto un impegno da parte dei leader internazionali: noi sappiamo quali sono le conseguenze  delle armi atomiche, siete voi a doverle proibire. Sfilavano  tra le bandiere dell’Ucraina, sventolate accanto ai cartelli “contro le armi nucleari”, scritti in diverse lingue. Alcuni di loro, nei giorni del G7, furono invitati a parlare  con diversi leader, tra cui Biden e Zelensky, anche perché ci sono cose che si capiscono soltanto a Hiroshima e Nagasaki. Gli hibakusha considerano Nagasaki una tragedia peggiore di Hiroshima – perché l’essere umano aveva già sperimentato tre giorni prima il primo bombardamento nucleare – e ciò che non uccisero la Bomba e le radiazioni lo fece lo stigma sociale che accompagnò i sopravvissuti per anni. Ma è sempre lì, a Hiroshima e Nagasaki, che si percepisce anche la trasformazione della tragedia e il significato della memoria, che si evolvono nel tempo:  negli anni Sessanta e Settanta l’associazione Hidankyo subì molte divisioni politiche, diversi esponenti dell’attivismo trovavano impossibile un dialogo con l’America, che aveva causato volontariamente la duplice tragedia. Ma l’elaborazione di quel gigantesco lutto ebbe compimento il 27 maggio del 2016, quando Barack Obama divenne il primo presidente americano in carica a visitare Hiroshima, accompagnato dall’allora primo ministro giapponese Shinzo Abe, e pronunciò un discorso che fece la storia, e che iniziava così: “Settantuno anni fa, in una mattina luminosa e senza nuvole, la morte è caduta dal cielo e il mondo è cambiato”.  All’epoca ci furono tiepide critiche alla decisione di Obama di non scusarsi formalmente per quella “morte caduta dal cielo”, eppure oggi è come se anche quelle divisioni fossero scomparse in Giappone. Perché oggi gli avversari sono altrove, nello stesso posto in cui è  chi  brandisce la minaccia nucleare. 


Oggi diversi media giapponesi hanno scritto che uno dei motivi per cui l’Accademia norvegese è tornata a premiare chi si distingue nell’attivismo contro le armi nucleari è la Russia di Vladimir Putin. Dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, la minaccia dell’uso di armi atomiche non è più un tabù per Putin e i suoi alleati. Solo oggi, in un’intervista a Newsweek, l’ormai ex ambasciatore russo negli Stati Uniti ha detto che il clima “russofobico” in America sta portando il paese a una “una collisione frontale con una potenza nucleare”. La Corea del nord del dittatore Kim Jong Un minaccia continuamente di usare le armi nucleari contro il Sud, l’America e i loro alleati – fra cui anche il Giappone. L’Iran da anni cerca di prodursi la sua Bomba. La Cina negli ultimi dieci anni ha accelerato e potenziato i suoi sistemi di armamento nucleari – da 500 a mille testate operative, secondo le analisi. In questo contesto, la deterrenza nucleare esercitata da Stati Uniti, Regno Unito e Francia è considerata necessaria alla sopravvivenza stessa del mondo come lo conosciamo. Viviamo in nuova èra nucleare, e ci siamo entrati  senza accorgercene del tutto: gli hibakusha sono lì a ricordarcelo. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.