L'editoriale dell'elefantino
Via da Unifil, subito. La missione ha fallito e non resta che prenderne atto
Le truppe di interposizione Onu in Libano non hanno impedito una feroce e sistematica rimilitarizzazione dei nemici di Israele. Crosetto e Meloni ora agiscano
Verità riconosciuta e dato di fatto non contestato, né da generali né da osservatori politici, è che le truppe Onu di interposizione in Libano hanno fallito. Si sono mosse con circospezione e cura, e da anni i paesi mandatari hanno cercato di proteggere i soldati Onu con una rete diplomatica e informativa adeguata alla circostanza. Sarebbe stato magnifico se gli oltre diecimila soldati, di cui mille italiani, avessero realizzato con l’interposizione gli obiettivi di pacificazione proposti dalla risoluzione che li aveva autorizzati. Ma il risultato si conosce. L’esercito libanese o quel che ne resta non ha acquisito alcuna forma di sovranità sul Libano meridionale, il cosiddetto monitoraggio di Unifil non ha impedito una feroce e sistematica rimilitarizzazione dei nemici di Israele oltre il fiume Litani, che avrebbe dovuto essere come da mandato la barriera geografica e militare di tutela delle popolazioni colpite dai bombardamenti di Hezbollah, il partito che progressivamente è divenuto il vero padrone del Libano e ha organizzato la piattaforma di lancio di oltre novemila missili sulle città, villaggi e boschi e colline abitati dal nemico israeliano, dall’ebreo da estirpare e annientare secondo i proclami fino a ieri resi noti da Hassan Nasrallah. Ora il territorio Unifil è di nuovo il teatro di una guerra dispiegata. Il paese colpito ha reagito e intende smantellare chi lo vuole distruggere. Che senso ha mantenere lì truppe che non possono badare a sé stesse e la cui funzione è contestata dalle formazioni combattenti in campagna di autodifesa nazionale?
L’Onu, dopo il caso Unrwa (una sua agenzia umanitaria i cui membri, una minoranza significativa, sono stati riconosciuti tra gli autori del 7 ottobre), e dopo un anno di guerra contro Hamas da parte di Tsahal, contestata e ostacolata in compagnia delle peggiori autocrazie politico-militari del mondo, ha perso completamente il prestigio e la funzione della imparzialità e della capacità di mediazione, è divenuta una grossa agenzia di chiacchiere manipolatorie e volontarismi unidirezionali, a difesa dei terroristi e contro chi li persegue, è stata definita dal primo ministro di Gerusalemme “una palude antisemita”, si è rinserrata come il cerchio di ferro del tentativo di isolamento internazionale dello stato ebraico. L’Italia dovrebbe prendere atto della situazione, anche in relazione ai pericoli di ulteriore destabilizzazione e coinvolgimento di Unifil nella logica dei combattimenti, e lavorare perché l’Onu ritiri mandato, autorizzazioni e truppe.
Forse sarebbe stato necessario muoversi per tempo, senza aspettare che scaramucce militari di territorio producessero pericoli per i Caschi blu e per i nostri soldati presi nella tempesta di fuoco.
Dopo le misurate proteste contro gli atti di ostilità verso Unifil, e oltre le formule talvolta enfatiche impiegate nell’urgenza, la sola iniziativa sensata in sede internazionale e Onu è la richiesta di riconsiderare una missione fallita e ritirare le truppe per non compromettere irrimediabilmente l’onore politico e militare di molti paesi impegnati nella missione con un compito impossibile, stare a guardare impotenti una guerra in corso. Che cosa aspettano il ministro Crosetto e la premier Meloni?