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Cosa leggono terroristi e miliziani nascosti nei bunker

Siegmund Ginzberg

Libri di odio e di guerra. Propaganda, antisemitismo e complottismo: una rassegna

Di Yahya Sinwar, il braccato numero uno della vendetta israeliana, non si sa dove si nasconda e come comunichi. Figurarsi se si può sapere cosa legge. Ma si sa cosa ha scritto. Quand’era nelle prigioni israeliane (dov’è stato rinchiuso per 15 anni), prima di venire liberato con mille altri detenuti palestinesi in cambio di un singolo soldato rapito cinque anni prima, Gilad Shalit, aveva scritto un suo Mein Kampf. Si intitola Spine e garofani. E’ un’autobiografia romanzata, una specie di Bildungsroman. L’aveva fatto uscire di cella a spizzichi e bocconi, aggirando la stretta sorveglianza con una rete di passaggi tra corrieri clandestini. E’ stato pubblicato in arabo nel 2004, col titolo Al-Shawk wa’l Qurunful. Lo si può comprare (a caro prezzo) in rete nella traduzione inglese: Thorns and Carnations. Racconta l’accumularsi dell’odio per l’occupazione israeliana. Ma, stranamente, a differenza del libro scritto in carcere negli anni 20 del secolo scorso da Adolf Hitler, e della propaganda di Hamas, non ha over-tones antisemiti, non ce l’ha con gli ebrei in quanto tali. Un secondo suo romanzo, Gloria, pubblicato nel 2010, è più specifico, quasi tecnico. Tratta delle operazioni del Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano. In particolare delle operazioni di assassinio mirato.

Una delle ossessioni di Sinwar, sin dai primi capitoli del suo romanzo, sono gli informatori palestinesi al servizio del nemico. Sa di cosa parla, ancora prima del suo arresto era stato tra i fondatori del Majd, il servizio di controspionaggio a Gaza. Lui stesso ha raccontato di come ne avesse ammazzati quattro con le sue mani. Gli era valso il soprannome di “macellaio di Khan Younis”. Si dice che torturasse di persona i sospetti. Pare che avesse fatto confessare il fratello di uno dei sospetti facendogli ingoiare sabbia a cucchiaiate. Poi li giustiziava strangolandoli o decapitandoli. In un caso avrebbe sepolto vivo il malcapitato. Un suo stretto collaboratore, l’ex leader delle Brigate Al-Qassam, Mahmoud Shteiwi, lo definisce “il mostro”. In lettere ai propri famigliari ritrovate nei tunnel di Gaza (quindi presumibilmente mai arrivate ai destinatari) racconta delle torture subite da lui. Shteiwi fu giustiziato nel febbraio del 2016, per non meglio specificati crimini “morali”. Secondo documenti rivelati dal quotidiano israeliano Haaretz, era accusato, oltre che di collaborazione con i servizi israeliani, per le sue propensioni omosessuali. Non si tratta di casi isolati, le esecuzioni sommarie di presunti informatori palestinesi a Gaza sarebbero di un migliaio all’anno, e tra questi solo meno della metà sarebbero stati effettivamente reclutati dai servizi israeliani.

Nel ricordare a un anno di distanza la strage del 7 ottobre, quasi nessuno si è soffermato sul perché e come sia stato possibile che i due anni di preparazione siano sfuggiti all’occhio e alle orecchie attentissime dei servizi israeliani. James Rosen-Birch, un esperto di scienze e tecnologia dell’organizzazione che vive in Canada, avanza una sua spiegazione. Lo fa in un saggio pubblicato dall’americana New Lines Magazine e tradotto nell’ultimo numero di Internazionale. Credevano che il supertecnologico muro che isolava Gaza fosse impenetrabile, che il fatto che ogni centimetro quadrato della Striscia fosse sorvegliato da droni, satelliti e palloni spia li mettesse al riparo dalle sorprese. Non si erano nemmeno accorti che la formidabile rete di informatori era stata compromessa, che molti erano diventati agenti doppi, i quali riferivano agli israeliani quello che volevano fosse riferito dai loro gestori palestinesi (e, peggio ancora, quello che gli israeliani volevano sentirsi dire). Ancora più determinante sarebbe il fatto che gli israeliani si sarebbero abituati a sottovalutare l’avversario, a considerare i palestinesi inferiori, ignoranti, subumani. Mentre Hamas studiava meticolosamente tutto, era curiosa di tutto, raccoglieva notizie dettagliate sulle domande che i loro gestori facevano agli agenti doppiogiochisti, sui droni e gli altri strumenti con cui questi venivano seguiti. E in cambio gli fornivano notizie false su tunnel, nascondigli di razzi e missili, sistemi di addestramento, e così via. Una delle due parti disprezzava il nemico, l’altra lo studiava. La capacità di Hamas di fare propaganda e di diffonderla capillarmente in rete è notoria. Meno si sa di quanto fossero impegnati a studiare l’avversario, la mentalità e l’opinione pubblica israeliani. Lo stesso Sinwar ha studiato e conosce alla perfezione l’ebraico. I recenti successi nel colpire e assassinare i capi della “resistenza”, nei loro santuari vicini e lontani, Iran compreso, indicano che sono corsi ai ripari. Ma forse non abbastanza, se, malgrado abbiano raso al suolo Gaza, ancora non hanno beccato Sinwar.

A Gaza non ci sono più librerie o biblioteche. Ce n’era una famosa e fornitissima. Fu distrutta in un bombardamento israeliano già anni fa. Un libro fresco di stampa di un accademico britannico, Andrew Pettegree, The Book at War. Libraries and Readers in a Time of Conflict (Profile books) racconta della sorte dei libri e delle biblioteche nelle guerre del secolo scorso. E’ ricco di aneddoti. Ma ha il difetto di concentrarsi quasi solo sulle esperienze anglo-britanniche. Mi ha colpito il capitolo in cui dettaglia, oltre alla distruzione di libri, il saccheggio che ne fecero anche i vincitori. I nazisti i libri non si limitavano a bruciarli o sequestrarli. I progetti di Alfred Rosenberg, l’ideologo del razzismo, l’Istituto di Francoforte per la ricerca sulla questione ebraica, e poi la Biblioteca dell’Est, raccolsero maniacalmente, per meglio dire rapinarono, in tutta Europa, poi in Polonia, in Ucraina e nella Russia occupata, milioni di volumi e manoscritti preziosi per meglio studiare il nemico giudaico. Russi e americani poi fecero a gara per appropriarsi di quel che era rimasto.

L’esilio, e i lunghissimi periodi di inazione tra un combattimento e l’altro, dovrebbero fornire più tempo per leggere (e per distrarsi). Confesso di non sapere cosa leggano, e come si distraggano i miliziani di Hamas a Gaza e quelli di Hezbollah in Libano. Immagino guardino una caterva di film pornografici e di serie televisive made in Türkiye. Sono diffuse in tutto il medio oriente. Sono diventate uno strumento formidabile di egemonia culturale. Sono il passatempo preferito del pubblico iraniano, malgrado lì ci sia il divieto teorico di accedere a produzioni non autorizzate. Quasi tutte mostrano donne vistose, truccatissime, senza veli. Prima aveva spopolato la serie italiana con Manuela Arcuri in divisa da poliziotta. Pare che il sogno di tutti i giovani iraniani fosse arruolarsi nella nostra Polizia di stato. Era già successo, molto tempo fa ai soldati della Wehrmacht che occupavano la Francia. Le lettere a casa e i diari sono zeppi di note scandalizzate e piccanti sulle nudità e la spudoratezza delle francesi. Deve essere tragico per i miliziani di Hamas, di Hezbollah e dei Guardiani della rivoluzione il recente divieto di usare cercapersone, cellulari, computer e altri congegni elettronici.

Sesso a parte, il collante principale delle letture (da una parte, ma anche dall’altra) è probabilmente l’odio. Odio irrefrenabile per il nemico massacratore, che li porta a trasformarsi in massacratori senza scrupoli e senza rimorsi. Tra le ragioni per cui uno è disposto a morire (o magari a suicidarsi) ci sono certo la causa, la fede, il fanatismo, la patria, l’amore e il desiderio di difendere e vendicare i propri cari (io, forse, sarei disposto a morire per i miei libri, ma non ne sono certo). Ma soprattutto c’è l’odio. Sono generazioni che ai ragazzini arabi viene insegnato che gli ebrei sono mostri. Uno studio condotto nel 2015 da ricercatori dell’Università Milano Bicocca rileva che 400.000 ragazzini e ragazzine delle scuole di Gaza avevano bisogno di “assistenza psico-sociale immediata” dopo gli attacchi israeliani dell’anno precedente. La cosa certa è che sono gli adulti di oggi. Così come i ragazzini di oggi saranno gli adulti di domani. 

E’ una vecchia storia che si ripete. I nazisti avevano reso scientifico l’odio verso gli ebrei. Arrivarono a distogliere a questo fine ingenti risorse materiali e umane dalla guerra, prima coi reparti specializzati, prima con gli Einsatzgruppen al seguito delle colonne che invadevano l’est europeo, incaricate di eliminare ebrei, slavi subumani e commissari “bolscevichi”, poi nello sterminio industriale della “soluzione finale”. L’osso più duro per gli alleati diretti a Berlino furono ragazzini quattordicenni, anche dodicenni. Fu un trauma per i G.I. americani doverli ammazzare. Ma gli odiatissimi “musi gialli” giapponesi erano poco più che marziani. Nelle ultime immagini che si hanno di Hitler, lo si vede decorare dei bambini fuori dal suo Bunker. Stalin gli rendeva la pariglia: “Non potete conquistare il nemico senza imparare a odiarlo con tutta la forza della vostra anima”, disse nel discorso del Primo maggio 1942. I serbi odiavano i bosniaci. Ora tocca ai russi odiare gli ucraini e viceversa.

Sappiamo poco delle letture di Ismail Haniyeh e di Hassan Nasrallah e successori. E anche delle letture dell’ayatollah supremo dell’Iran, Ali Khamenei. Su twitter si è dichiarato “avido lettore”. “Non sono un fan del cinema e delle arti visive, ma per quanto riguarda poesie e romanzi non sono un consumatore tipico”, ha dichiarato. Rivelando che tra le sue letture preferite ci sono l’autore sovietico del Placido Don, il romanzone sul sanguinario conflitto tra bolscevichi e kulaki, Mikhail Sholokhov, e Tolstoj. Ma attenzione: non Leone Tolstoj, quello di Guerra e pace, che odiava Napoleone ma era diventato pacifista dopo aver servito negli eserciti zaristi nel Caucaso, ma Aleksej Nikolaevic Tolstoj, autore de Il vampiro, L’iperboloide dell’ingegnere Garin, e la trilogia La via dei tormenti. Ex emigrato, divenuto poi, dopo il suo rientro in Russia, come tutti i neofiti e quelli che hanno qualcosa da farsi perdonare, zelantissimo apologeta del regime staliniano.

Il linguaggio dei discorsi di Haniyeh, Nasrallah e di Khamenei ha in comune un disprezzo profondo di Israele. Non pronunciano mai nemmeno il termine Israele, come se si trattasse di una parola maledetta e oscena. Dicono “entità sionista”, parlano di cancro da eliminare dalla faccia della terra. Nasrallah continuava a dire che gli ebrei sono “stupidi”. Li invitava continuamente a non fare “cose stupide”. Nel suo primo discorso dopo il 7 ottobre disse che erano destinati alla sconfitta “perché, a differenza di noi, non sono pronti a morire”. I loro seguaci a Gaza e in Libano sono più diretti: parlano di ebrei. Sionista del resto è diventato una parolaccia per molta dell’intellighenzia occidentale e dell’opinione pubblica. Con buona pace del fatto che significa storicamente non ebrei ma fautori di uno stato per gli ebrei, e che il sionismo nasce di sinistra, socialista, progressista, e pure poco religioso. Gli importa poco che con i “sionisti” ce l’abbiano anche la destra e gli ultrà religiosi in Israele.

Non era sempre stato così. L’ayatollah Khomeini, che pure in fatto di letture non dava l’idea di uno che fosse andato molto oltre il Corano, non tuonava contro gli ebrei, semmai contro gli arabi sunniti, a cominciare da Saddam Hussein. Tra i chierici in turbante che intervistai nei giorni della Rivoluzione ce ne fu uno che mi fece una tirata contro gli ebrei in quanto tali, spingendosi a dire: “Ci saranno ben ragioni per cui sono stati tanto odiati, dal Medioevo in poi, da voi in Europa”. Non me ne preoccupai più di tanto. Altri mi dicevano tutt’altro. A cominciare dall’ayatollah Mahmoud Taleghani. Morì improvvisamente, non mi passò allora per la mente che potesse essere stato assassinato dagli islamici più puri e duri.

Nemmeno Arafat, che pure qualcosa aveva avuto a che fare con il terrorismo, ce l’aveva con gli ebrei. L’avevo intervistato quando venne a Teheran poco dopo la rivoluzione islamica. Era felice, visibilmente entusiasta, su di giri. Disse che gli equilibri in medio oriente erano “definitely” cambiati (colloquiavamo in inglese). Cercava l’aiuto iraniano, ma finì allora che litigarono. Lui guardava già a Washington. Voleva che gli americani smettessero di finanziare con le loro tasse la guerra israeliana contro la sua Olp, si vantava di essere un discendente degli amorrei, cioè di uno dei popoli fenici scacciati dalla Terra santa in epoca biblica. Ma dopo l’11 settembre si recò ostentatamente a donare sangue per le vittime dei terroristi di Al Qaida. Sono sicuro che le sue letture erano un po’ più vaste di quelle dei suoi successori.

Qualcosa di più si sa delle letture di Osama bin Laden. Più che con gli ebrei e con Israele ce l’aveva con la monarchia saudita, che l’aveva emarginato e poi abbandonato, forse tradito. Ce l’aveva con i sovietici, che avevano occupato l’Afghanistan, e poi con gli americani, che prima avevano finanziato e aiutato la sua guerriglia in Afghanistan, e poi gli si erano rivolti contro. Il commando di Navy Seals che lo braccò e lo uccise in Pakistan aveva recuperato i suoi libri, i suoi appunti e i suoi computer. Parte di questo materiale è stato reso pubblico, dal 2014 in poi. Non se ne ricava granché. L’elenco dei libri comprende 39 titoli. C’è parecchia roba che riprende teorie cospirazioniste e complottiste. Ci sono ben due titoli di Noam Chomsky, un libro di Bob Woodward, Obama’s Wars, uno dell’ex agente della Cia, esperto in terrorismo, Michael Scheuer, Imperial Hubris. Non ci sono romanzi. L’elenco è deprimente. Tra le curiosità che vengono fuori dal traffico di email, il consiglio di fare molta attenzione alle comunicazioni perché “il nemico può facilmente monitorare tutto il traffico email” e perché “la scienza dei computer non è una nostra scienza e non l’abbiamo inventata noi. Credo sia un grande rischio dipendere dalla criptazione per inviare messaggi segreti”. Da uno dei documenti pubblicati da Snowden ce n’è uno in cui si parla di un piano della National Security Agency Usa per nascondere congegni spionistici nelle apparecchiature mediche che potrebbero essergli inviate (bin Laden era bisognoso di dialisi). L’altro giorno sono andato in ospedale a verificare il mio pacemaker. Il cardiologo che maneggiava il computer mi ha detto a un certo punto: “Non si preoccupi, ora le abbasso il ritmo cardiaco”. Ho distintamente sentito il cuore fermarsi. Mi è passato per la mente: non è che Khamenei, alla sua età, ha un pacemaker o qualcosa del genere?