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Khamenei ci legge, studia e sa parlare la lingua che seduce le democrazie

Giulio Meotti

L’ayatollah non è un pazzo irrazionale. Sa usare il registro woke quando serve e cita abilmente gli intellettuali della sinistra europea. Ha dichiarato una “guerra cognitiva” per reclutare adepti nel nuovo anti imperialismo degli imbecilli: così il suo odio verso Israele e gli ebrei fa breccia in tanti occidentali

Lo scorso weekend, Ali Khamenei ha tenuto un sermone di quaranta minuti fuori da una moschea a Teheran giustificando il pogrom del 7 ottobre. Per quaranta lunghissimi minuti, Khamenei si è visto trasmettere in diretta dalla Bbc, la tv pubblica inglese, mentre aveva con sé un fucile. “Si potrebbe, a fatica, capire la Bbc che intervista Khamenei”, ha scritto Bernard-Henri Lévy. “Ma trasmettere un discorso di 45 minuti che elogia il 7 ottobre e sostiene la distruzione di Israele non è niente di meno che glorificare il terrorismo. Avreste, nel 1939, trasmesso servilmente le parole di Hitler?”.


Khamenei non è Hitler, ma il più o meno inconfessabile beniamino di un pezzo d’occidente che vede in Iran, Cina, Russia, Hezbollah, Hamas e Venezuela un nuovo asse del bene contro quello del male, composto da occidente, America e Israele. “La questione non è solo politica, ma metafisica” scrive su Le Point Franz-Olivier Giesbert, a lungo direttore della redazione dell’Obs, del Figaro e di altri giornali francesi. “Per quale aberrazione mentale il loro odio di sé o la loro pulsione di morte li porta a proclamare un’intifada in pieno centro a Parigi o a travestirsi da fedayn, coperti di kefiah, di veli, per sostenere la ‘resistenza’ guidata dal ‘grande leader iraniano’, come dice seriamente Dominique de Villepin? Da qui la demonizzazione quasi paranoica di Israele per riportare alla luce, sulle sue macerie, una grande Palestina, ‘dal mare al Giordano’. Questo è l’obiettivo dichiarato dei mullah e dei loro mercenari. Sulla stessa linea, i cavalieri dell’Apocalisse della nostra ‘quinta colonna’ non muovono mai la minima critica contro l’Iran, il loro migliore alleato”.


I sondaggi mostrano un consenso in occidente per il progetto di Khamenei più ampio che in Iran. “I giovani britannici sono sempre più a favore di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre”, secondo un nuovo sondaggio di YouGov uscito questa settimana. Il 16 per cento ritiene che il massacro sia “giustificato”, come ha detto Khamenei sulla Bbc. Oltre un quarto, il 28 per cento, dei britannici “molto di sinistra”. Un sondaggio Harvard-Harris ha rilevato che il 51 per cento degli americani tra i 18 e i 24 anni ha affermato di sostenere “l’abolizione di Israele e la sua consegna ad Hamas”. Khamenei è l’ayatollah d’occidente a capo dell’“anti imperialismo degli imbecilli”.

 

                           


Quando la moschea sciita di Roma tiene una serata di preghiera per Hassan Nasrallah, l’ordine arriva da Khamenei. Quando la Svezia è inondata da centinaia di migliaia di messaggi sui social  contro l’“islamofobia” e il rogo del Corano, l’ordine arriva sempre da Khamenei. Quando la McGill University, in Canada, è travolta da un’ondata di manifestanti pro Gaza e sui social è un putiferio di proteste, l’ordine arriva da Khamenei. Intanto a Roma sventolano le bandiere di Hezbollah e dell’Iran e i ragazzi romani portano cartelli dove si legge: “7 ottobre non è terrorismo, ma resistenza”. E i gruppi filopalestinesi della Columbia University ora esprimono solidarietà con l’attacco missilistico dell’Iran allo stato ebraico, definendolo una “mossa coraggiosa”.


La prima pagina del numero del 2 maggio 2024 del settimanale Khat-e-Hizbullah, portavoce di Khamenei, presentava una foto delle proteste nei campus americani con il titolo: “Una fiamma nel cuore dell’oscurità: rivolta degli studenti americani contro il genocidio del popolo di Gaza”. Khamenei afferma che la guerra è ora una guerra cognitiva: “L’influenza della stampa è più potente di un missile, un drone, un aereo da guerra e le armi in generale. I media influenzano la mente e i cuori, e chi controlla i media riesce a raggiungere i suoi obiettivi”. Khamenei continua intanto a usare i social per dire al mondo che “i sionisti sono come i nazisti”, un refrain ormai entrato di petto nella cultura occidentale. Khamenei manipola anche il termine “razzismo”, il passepartout della coscienza occidentale. Come ha detto lui stesso, “il regime sionista è un esempio di razzismo”.

 

                           


Quando Teheran minacciò di distruggere Israele “tumore canceroso”, il Premio Nobel per la letteratura, il tedesco Günter Grass, prese carta e penna per difendere gli ayatollah iraniani, dicendo che era Gerusalemme che minacciava Teheran, non il contrario. Poi, distribuita su X (Twitter), arriva la lettera di Khamenei agli studenti americani, in cui il leader compiace la sinistra usando il gergo woke e la da’wa, la sensibilizzazione islamica. Khamenei ha condannato l’“islamofobia” nella sua prima lettera ai giovani occidentali dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi. “L’élite sionista globale… possiede la maggior parte delle corporazioni mediatiche statunitensi ed europee o le influenza attraverso finanziamenti e corruzione”, scrive Khamenei. Musica per le orecchie degli antisemiti. “Il leader iraniano sta facendo ciò che faceva l’Unione sovietica”, scrive Michael Totten sul World Affairs Journal. “Entrambi hanno usato il linguaggio occidentale dei diritti umani come armi contro l’occidente. Ehi, forse il leader iraniano è uno di noi! Forse tutto ciò che dice il nostro governo è una bugia!”.


Khamenei ha attaccato la “brutalità della polizia americana”, dopo l’uccisione di George Floyd nel 2020. Ha twittato: “Se hai la pelle scura e cammini negli Stati Uniti, non puoi essere sicuro di restare vivo nei prossimi minuti”. Non male per un regime che sfregia con il rasoio le ragazze che rifiutano il velo. In un tweet sempre rivolto alla sinistra americana, Khamenei ha processato il passato degli Stati Uniti. La schiavitù, ha detto Khamenei, “è uno degli eventi tragici della storia. Un tempo salpavano le navi nell’Oceano Atlantico e gettavano l’ancora sulle coste dell’Africa occidentale, in Gambia e altri paesi del continente”.


Intanto la sua autobiografia, “Cella numero 14”, riferimento alla prigione in cui la Guida suprema ha trascorso tre anni al tempo dello Shah, è stata tradotta in inglese, spagnolo, portoghese, cinese, urdu e altre lingue, nonché è presentata nelle capitali della “resistenza antioccidentale”, a cominciare da Caracas, dove il chavismo è diventato la Mecca degli antagonisti occidentali (va da sé che Chávez era un habitué a Teheran).


Khamenei, oltre al Papa vicario di Cristo, è l’unica figura mondiale che reclama un legame con Dio (ayatollah significa “segno di Allah”). Nato a Mashhad nel 1939, il padre studioso religioso, Khamenei studiò a Qom dal 1958 al 1964 e, mentre era lì, si unì al movimento di Khomeini, di cui è diventato erede nel 1989. L’anno in cui i popoli dietro la cortina di ferro insorgevano contro il dominio sovietico e il Muro di Berlino cadeva, dall’Iran l’ayatollah decideva di mettersi alla testa della grande resistenza contro l’occidente. Oggi il filosofo iraniano Daryush Shayegan dice che la caduta della Repubblica islamica assesterà un colpo fatale all’islam politico, rimasto bloccato al 1989.


Non importa che l’Iran di Khamenei detenga il record mondiale di condanne a morte, che impicchi in piazza i dissidenti e gli omosessuali, che faccia strame delle donne libere, che censuri la cultura, che spenda un miliardo di dollari all’anno per finanziare gruppi terroristici e che svetti in altri record poco liberal. Khamenei attacca la democrazia liberale, il capitalismo e l’occidente coinvolti “in un inevitabile declino a lungo termine”. Vede l’occidente come “islamofobo”. E’ un fanatico, ma non è irrazionale. Nessun altro marja (ayatollah anziano) o faqih (giurista islamico) ha un passato così cosmopolita. Khamenei conosce le corde che deve pizzicare per suonare lo spartito occidentale. Come quando attacca il “soft power” coniato da Joseph Nye.


Khamenei parla spesso dei romanzi occidentali. Ha elogiato il russo Mikhail Sholokhov e gli piacciono Honoré de Balzac e Victor Hugo. Come disse ad alcuni funzionari della rete televisiva statale iraniana nel 2004, “secondo me, ‘I miserabili’ di Victor Hugo è il miglior romanzo mai stato scritto nella storia. Ho letto ‘La Divina Commedia’. Ma Hugo è un miracolo nel mondo della scrittura… Un libro di sociologia, un libro di storia, un libro di critica, un libro divino, un libro di amore e sentimento”.


Khamenei ha detto che i romanzi gli hanno dato una visione delle realtà più profonda della vita in occidente. “Leggete i romanzi di alcuni autori di sinistra, come Howard Fast”, ha consigliato a un pubblico di scrittori e artisti nel 1996. Fast è lo scrittore americano comunista vincitore del Premio Stalin. “Leggete il famoso libro ‘Furore’, scritto da John Steinbeck… e vedete cosa dice sulla situazione della sinistra”, continua Khamenei.


E’ anche un fan della “Capanna dello zio Tom”, che raccomandò nel marzo 2002 ad alti dirigenti statali: “Non è questo il governo che ha massacrato gli abitanti nativi originari della terra d’America? Non è stato questo sistema e i suoi agenti che hanno sequestrato milioni di africani dalle loro case e li hanno portati via come schiavi e hanno rapito i loro giovani figli e figlie per farli diventare schiavi e hanno inflitto loro per lunghi anni le tragedie più gravi? Oggi, una delle opere d’arte più tragiche è ‘La capanna dello zio Tom’. Questo libro è ancora vivo dopo quasi duecento anni”.


L’ayatollah sa usare il registro woke quando serve. Conosce l’occidente, anche se vi ha messo piede soltanto una volta nel 1987, quando Khamenei fece il suo unico viaggio fino a oggi negli Stati Uniti, per partecipare come presidente dell’Iran a una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel suo discorso disse agli americani: “Siete colpevoli di sostegno alla dittatura Pahlavi, con tutti i crimini che ha commesso contro il nostro popolo”. Khamenei ha diversi famigliari in Gran Bretagna e Francia, tra cui suo nipote, Mahmoud Moradkhani, mentre una sorella di Khamenei, Badri, lo ha accusato di aver costruito un “califfato dispotico”.


L’ayatollah ha descritto la cultura occidentale come “una combinazione di cose belle e brutte”, dicendo ai giovani iraniani: “Nessuno può dire che la cultura occidentale sia completamente brutta”. Cita Sartre per il suo sostegno alla rivoluzione di Castro a Cuba, Fanon e altri intellettuali della sinistra europea. Se la prende con la “società aperta” di Karl Popper, diventata “obsoleta”. Come Khomeini nell’esilio parigino, Khamenei ha coltivato rapporti con intellettuali occidentali rinnegati, come il comunista prima cattolico e poi islamico Roger Garaudy, negazionista, oltre a ospitare sul sito khamenei.ir interviste a leader della sinistra radicale come George Galloway. Basta leggere “Dossier Iran” (Neri Pozza), che raccoglie gli scritti da Teheran di Michel Foucault, per capire la fascinazione di tanti intellettuali europei per le Guide supreme iraniane. E dell’appeasement occidentale, Khamenei si fa beffe. Un anno fa il presidente svizzero Alain Berset, in occasione della festa nazionale iraniana, che si celebra l’11 febbraio e commemora la cacciata dello Shah e l’instaurazione della Repubblica islamica, ha inviato “un telegramma di congratulazioni.”

“Il presidente federale augura all’Iran e ai suoi cittadini un futuro felice e di successo”, recita il testo di Berset. La sua ossessione patologica verso Israele e gli ebrei fa breccia in tanti occidentali. Le radici del suo antisemitismo si trovano nella biografia della sua città natale, Mashhad. Nei salotti islamici che Khamenei frequentava al tempo, le correnti marxiste ritraevano Israele come strumento dell’imperialismo occidentale; contemporaneamente, Khomeini attaccava l’“influenza ebraica” nella corte reale Pahlevi.


Nel maggio del 1963 il giovane Khamenei ricevette una lettera di Khomeini, da consegnare alle autorità religiose a Mashhad. Il messaggio diceva: “Preparatevi per la lotta contro il sionismo”. Khamenei attacca “l’opposizione degli ebrei al Profeta”, “l’avidità degli ebrei” e “la magia nera dei rabbini”. Il 5 agosto 1980, Khamenei tiene uno dei suoi più famosi sermoni. “La nazione iraniana è l’avanguardia della lotta per la liberazione della Palestina… La rivoluzione iraniana ha raggiunto la vittoria entro i confini, ma fino a quando una piaga contagiosa, un tumore sporco chiamato stato di Israele, usurpa le terre islamiche, non possiamo sentire la vittoria”. Khamenei aggiunge che “se ogni membro della grande comunità islamica di un miliardo di fedeli getta un secchio d’acqua contro Israele, Israele sarà annegato dal diluvio e sarà sepolto”.


E così l’ayatollah che pensa di essere il rappresentante di Allah sulla terra ha finito per essere venerato non solo a Teheran, anche a Sciences Po, alla Columbia e nelle scuole di giornalismo. Spinto dall’odio per l’entità sionista, il capitalismo liberale e l’occidente, Khamenei lancia missili progressisti e “decolonialisti”, più simbolici che altro e che hanno ucciso relativamente poche persone, mentre Benjamin Netanyahu è un ebreo pericoloso con un ego sproporzionato, “mascolinità tossica” al suo peggio. Il genio diplomatico di Khamenei gli ha permesso di costituire un “asse del bene” capace di resistere all’“asse del male” guidato dagli americani. L’ayatollah ovviamente ha il suo lato oscuro (nessuno è perfetto), come sulla questione del gender. Tuttavia, guardiamo avanti.
Anche se Khamenei cadrà, il figlio Mojtaba ne prenderà il posto e la luce dell’islam non si spegnerà. Inshallah!

 

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.