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Medio Oriente

Il femminismo è morto il 7 ottobre

Lucetta Scaraffia

La strumentalizzazione degli stupri, secondo Azadeh Moaveni, si risolve nell’assoluzione totale dei palestinesi e nella condanna inesorabile degli israeliani. La retorica cieca di chi non vuol vedere la realtà

Il femminismo occidentale sta andando irreparabilmente in frantumi, ammutolito e accecato davanti al primo vero, drammatico scontro con la realtà, cioè agli stupri perpetrati dai miliziani di Hamas sulle donne israeliane il 7 ottobre. L’ideologia dell’appartenenza politica ha preso il sopravvento sui princìpi: le vittime di violenza sessuale non sono più  considerate tutte uguali e tutte da difendere. Ma non solo, lo sforzo fatto dalle femministe qui da noi per allargare a dismisura il ventaglio degli atti considerati aggressioni sessuali – aggiungendovi  anche i complimenti molesti o le avance da corteggiamento un po’ pesanti – questo standard rigidissimo, tuttavia ipocritamente e ambiguamente non applicato affatto a società e culture come quella islamica dove le donne – altro che “complimenti molesti”! – sono considerate esseri di seconda categoria proprietà degli uomini, l’ambiguità di questo doppio standard, dicevo, ha fornito la possibilità di  decidere  se le donne islamiche  fossero  da considerare vittime di abusi sessuali  a seconda che  lo fossero  quotidianamente  a opera dei  loro  correligionari (come accade spessissimo, ma nel qual caso non si dà neppure l’ipotesi ) ovvero che esse lo fossero, sia pure eccezionalmente,  da parte dei soldati israeliani.  Nel qual caso, invece, viene allora applicato il rigido criterio degli abusi  valido in occidente. Insomma: su come un marito islamico tratta molto spesso sua moglie, silenzio assoluto; se viceversa un soldato israeliano alza in qualsiasi modo le mani su una donna palestinese siamo immediatamente alla violenza sessuale. Questo insieme di visioni e di giudizi omissivi e contraddittori si è manifestato in pieno nelle polemiche successive al 7 ottobre.

La strage perpetrata quel giorno dai miliziani di Hamas e parzialmente documentata dagli stessi con video, non è stata negata da nessuna delle parti contendenti per quanto concerne la gravità, tranne che per una questione non di secondaria importanza  ma che rimane molto discussa anche ora, quasi un anno dopo: quella degli stupri sulle donne israeliane. Il motivo sta certamente nella particolare esecrazione della violenza sessuale che si è affermata nei paesi occidentali negli ultimi anni, e che rende quindi questa accusa particolarmente grave. E’ proprio per questo che fin dal primo momento l’accusa suddetta è stata messa in dubbio anche in sedi importanti come l’Onu. In modo purtroppo così efficace, bisogna aggiungere, che una gran parte del femminismo occidentale si è rifiutato di prenderne davvero atto facendone oggetto specifico, ad esempio, nelle varie manifestazioni successive a quell’evento; le quali, al contrario, si sono fatte abitualmente un vanto di essere “contro tutte le violenze” perpetrate nel mondo non importa da chi commesse. Israele ha risposto divulgando i video atroci che documentavano gli stupri di cui stiamo dicendo, ma evidentemente contro le menzogne la realtà spesso può poco. E infatti proprio ora, nell’avvicinarsi  dell’anniversario della strage, Internazionale  – accreditatissimo settimanale del ceto medio riflessivo di sinistra –  pubblica la traduzione di un articolo apparso sulla London Review of Books  della giornalista Azadeh Moaveni (un’iraniana che vive negli Usa),  che si propone di fare infine chiarezza sul tema degli stupri commessi il 7 ottobre. Un’analisi che ci tiene a  presentare  come imparziale e informata, dal titolo “La guerra sul corpo delle donne”.

L’articolo si apre citando il  rapporto della rappresentante dell’Onu Pramila Patten, redatto dopo aver trascorso due settimane in Israele e in Cisgiordania su invito del governo israeliano perché l’inviata delle Nazioni Unite potesse farsi un’idea delle violenze accadute il 7 ottobre. Questa missione era stata oggetto di feroci polemiche all’interno dell’Onu stesso, dal momento che molti temevano che il rapporto in quanto tale avrebbe potuto apparire come una conferma  delle “storie piene di inesattezze che circolavano sui mezzi di informazione”, storie che sarebbero state diffuse ad arte da Israele per giustificare il proseguimento della guerra. Hamas negava infatti che i suoi combattenti, in quanto disciplinati e devoti islamici, avessero mai stuprato nessuno.

Patten nel rapporto mette subito le mani avanti, dicendo che ha potuto raccogliere solo informazioni e non prove, anche se riferisce di aver trovato ragionevoli motivi per credere che violenze sessuali siano  effettivamente avvenute in vari luoghi, e che esse abbiano compreso stupri di gruppo, aggiungendo però che solo  tre casi fossero da ritenersi attendibili e verificati dalla sua squadra. Almeno altri due avrebbero riguardato invece lo stupro di cadaveri. Sempre secondo Patten, infine, il ritrovamento di vittime femminili prive di reggiseno o nude, così come le testimonianze delle donne prese come ostaggio e in seguito restituite a Israele, potrebbe indicare, sì,  l’esistenza di altri casi di stupro ma a suo giudizio  privi della necessaria verificabilità.  Alle insistenti domande rivoltele dai giornalisti, Patten se n’è uscita alla fine con una frase sibillina: “La nebbia della guerra spesso nasconde i crimini di violenza sessuale, anche se  nella storia dei conflitti abbiamo anche visto casi in cui la violenza sessuale può essere usata come un’arma”.

Sono queste parole che offrono la possibilità a Moaveni di concludere che “i sostenitori della guerra a Gaza hanno fatto affermazioni infondate sulla natura e sul numero delle violazioni”. L’azione informativa avviata da Israele e suffragata da un gran numero di immagini e di resoconti  non può dirsi  affatto convincente, scrive la  nostra giornalista. Foto e video con corpi più o meno vestiti e in posizioni sessualmente allusive, con sangue e ferite compatibili con una violenza sessuale sono  eventuali testimonianze solo (!) di  un trattamento di disumanizzazione dei cadaveri. Non a caso, veniamo a sapere, molte femministe fra cui non poche arabe hanno parlato di “bufala dello stupro di Hamas”, accusando Israele di non avere dato la possibilità di indagare a esperti imparziali.

Moaveni continua a ripetere che “in ogni guerra la verità su quello che è stato fatto alle donne, e da chi, è offuscata dalla propaganda” e che se pure è innegabile che, come in ogni conflitto, ci siano stati degli episodi di violenza sessuale duranti gli attacchi di Hamas del 7 ottobre  – attacchi  che peraltro non vengono mai qualificati  come parte di una strage accuratamente programmata,  in assenza  di qualsiasi  conflitto aperto in corso –  a suo giudizio  il numero degli stupri sarebbe stato molto inferiore a quanto denunciato da Israele. Pur ammettendo l’entità sconvolgente del massacro – continua –  non è possibile quantificare gli stupri anche perché o soprattutto perché il governo israeliano non ha permesso che apposite squadre dell’Onu facessero le necessarie indagini, preferendo affidare il recupero dei corpi al gruppo religioso di primo soccorso Zaka, come del resto – deve comunque ammettere – è sempre accaduto in attacchi di questo tipo.

Dopo avere avvallato dubbi e sospetti intorno agli stupri  commessi ai danni di donne israeliane, la giornalista sposta il suo sguardo su quanto accade alle donne di Gaza. Le quali soffrono per la guerra e faticano  a portare a termine gravidanze e a partorire, anche se, scrive, tutto questo non è fatto oggetto di una denuncia significativa a causa “dell’eccessiva attenzione sulla violenza sessuale penetrativa (stupro)”. Infatti come ha recentemente denunciato l’esperta dell’Onu, Fionnuala Ní Aoláin, (opportunamente citata da Moaveni) l’insistenza sullo stupro “distoglie l’attenzione da altri gravi danni riferiti al genere, che le donne subiscono durante i conflitti. E’ fondamentale, invece, valutare come la gravità e il costo di questa violenza spesso invisibile infliggano un danno della  stessa crudeltà, o di una crudeltà perfino maggiore, sul corpo e sulla vita delle donne”.

Basandosi su questa affermazione, Moaveni passa a denunciare le violenze inferte dagli israeliani sulle palestinesi prigioniere: molte minacce di aggressioni sessuali e forse due stupri sulle prigioniere. Almeno duecento donne arrestate nella Striscia di Gaza sarebbero  state sottoposte a trattamenti umani degradanti di cui arriva all’esterno solo qualche frammento. Detenute  sarebbero state spogliate e picchiate, alcune sui genitali, palpeggiate mentre erano bendate, denudate e costrette ad assumere posizioni degradanti, e spesso fotografate dai soldati in tali condizioni. Foto che, dato il carattere infamante per le vittime, se rese note,, costituirebbero una forma di ricatto in atto da decenni. Ma la ricerca di casi di violenza si può allargare ancora: sia in prigione sia a Gaza, ad esempio, sarebbe impossibile trovare assorbenti, nei posti di blocco spesso le  donne sono fermate e perquisite da uomini, talvolta sono trascinate in strada, di notte, scalze, in pigiama e senza velo: tutti attacchi evidenti alla loro cultura.

Infine i  soldati israeliani – cosa ormai risaputa – si sono scambiati foto in cui biancheria femminile delle palestinesi rivestiva le loro armi o era sulle le loro divise. In sostanza si parla di violenze e atteggiamenti odiosi da parte dei militari israeliani, certamente da sanzionare, ma non di stupri. Lo stupro è un’altra cosa: è la violazione del corpo di una donna, dolorosa, umiliante talora sconvolgente,  che in alcuni casi si può trasformare in una gravidanza subita.

Ma qui, spinta dal vento favorevole di un femminismo pronto a considerare quasi tutto come violenza sessuale, Moaveni apre la sua argomentazione a un nuovo tema, quello della violenza famigliare che, secondo alcune indagini israeliane, era aumentata durante il conflitto. Ma, a salvare i palestinesi violenti, può essere invocato il rispetto per le culture diverse. Perché, anche se si può supporre che nelle famiglie di  Gaza e della Cisgiordania  la violenza sia aumentata, “il contesto politico e culturale rende impossibile un resoconto accurato”. Soprattutto è bene non farlo, questo resoconto, suggerisce Moaveni, per contrapporsi alla narrazione israeliana, che “presenta il suo paese come un baluardo dell’uguaglianza di genere e dei diritti umani,  un paese dove le donne possono servire nell’esercito, uno spazio sicuro per le persone lgbt, mentre l’altra parte è descritta come primitiva – scrive Lina AbiRafeh – anzi bestiale nel trattare le donne”. Siamo sempre di fronte a bugie, a manipolazioni politiche? A Internazionale nessuno si pone il problema, e sembrano così avvalorare la tesi che il silenzio sulle violenze interne serva solo ad allontanare la possibilità di confronto con la libertà femminile israeliana, cioè sia solo una strategia di guerra. E quindi anche le botte che le palestinesi si prendono da padri e mariti siano colpa degli israeliani, e cesserebbero in caso di pace.

L’articolo insinua quindi, neppure troppo sottilmente, che gli stupri delle israeliane siano stati ingigantiti per giustificare la guerra, ai fini di utilizzare lo sdegno in cui oggi in occidente incorre chiunque sia colpevole di violenza contro le donne. Ma la stessa autrice non si rende conto che anche lei si macchia di questo uso strumentale delle polemiche femministe quando ricorre all’ampiamento delle battaglie contro la violenza sulle donne, operato dalle stesse femministe, per far apparire vittime di violenza sessuale anche le palestinesi. Trattate spesso, non si dubita, in modo ingiusto e irrispettoso, ma non stuprate. La battaglia contro la violenza che dice di combattere Moaveni viene così strumentalizzata in due modi diversi – da una parte minimizzando la gravità degli stupri del 7 ottobre, dall’altra allargando il perimetro delle violenze misogine a  tipologie di delitti molto meno gravi – mentre è evidente quanto uno stupro sia diverso, e molto più grave, di una fotografia umiliante.

Anche il rispetto della diversità culturale viene invocato per giustificare il silenzio sulla violenza interna che subiscono e hanno sempre subìto le donne di Gaza, condannandole quindi a un doppio futuro di vittime: della mancanza di rispetto degli israeliani e della violenza dei loro familiari. In una sola cosa Moaveni ha ragione: il femminismo nato come alleanza di difesa delle donne fra di loro non esiste più, è a pezzi, soggetto alle convenienze politiche, e perfino le vittorie conseguite in passato – come il riconoscimento della gravità del reato di stupro – vengono strumentalizzate contro le vittime stesse.

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