Indagine
La Via della disinformazione. I media cinesi fanno ancora affari in Italia
Santanchè al gran gala di China Media Group a Milano, il principale organo di propaganda di Pechino
Scoperto un oscuro sito che pubblica in inglese imitando il New York Times. Editoriali anche sul governo Meloni e la Via della seta. I suoi giornalisti, però, non esistono. L'analista Shannon van Sant: "E’ così che la disinformazione si diffonde più facilmente”
Lunedì scorso la ministra del Turismo Daniela Santanchè è salita sul palco del gran gala organizzato a Milano da China Media Group per celebrare “media e cultura tra Italia e Cina nel 20° anniversario del partenariato strategico”. Con Santanchè c’era Xing Bo, vicepresidente del gruppo considerato il braccio operativo (e ricchissimo) dell’infrastruttura strategica di comunicazione del Partito comunista cinese, oltre al console generale cinese a Milano, Liu Kan, e a diversi nomi di spicco del business mediatico italiano tra cui Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, che ha all’attivo diversi accordi con il colosso di Pechino. “Lo scambio di esperienze può azzerare le distanze e aprire una collaborazione strategica e redditizia per entrambi”, ha detto la ministra del Turismo.
Poco prima Santanchè aveva assistito alla presentazione e celebrato i nuovi prodotti in collaborazione Italia-Cina che ritraggono – guarda caso – la Cina nel modo migliore possibile: “Scoprire la Cina” prodotto dal Gruppo Netweek e “Cargo”, programma economico coprodotto da China Media Group e Class editori (si parlerà della crisi economica cinese?). Eppure il China Media Group, e il suo leader Shen Haixiong, sono il mezzo più importante della propaganda cinese, sotto il diretto controllo del dipartimento di Propaganda del Partito.
Xi Jinping, in dodici anni da leader cinese, ha costruito e rafforzato una complessa struttura di narrazione e racconto positivo della Repubblica popolare nel mondo: nel 2018 la riforma del dipartimento di Propaganda del Partito comunista cinese ha consegnato ai funzionari politici molto più potere di controllo e censura nell’ambiente dei media, che va dai giornali ai film ai programmi d’intrattenimento. Non solo: studi e ricerche dimostrano che oltre alle collaborazioni internazionali con i suoi media di partito, la leadership cinese si avvale di tecniche di manipolazione dell’informazione su piattaforme online grazie al cambiamento del consumo di news (per lo più attraverso i social, e il social più popolare al mondo, TikTok, è di proprietà cinese), ma anche con tattiche più tradizionali di disinformazione e caos informativo.
Il mese scorso Shannon van Sant, analista e advisor della fondazione Committee for Freedom in Hong Kong, ha pubblicato per il think tank Jamestown Foundation una ricerca sul Beijing Times, un misterioso media online che rivendica di pubblicare “imparziali notizie sulla Cina” e che sembra non avere nulla a che fare con il vero Beijing Times, vecchio quotidiano di proprietà del Quotidiano del popolo. Il Beijing Times oggetto della ricerca pubblica storie internazionali piuttosto neutre intervallate da storie di propaganda del Partito comunista cinese. Il primo aspetto allarmante legato al sito di news è che gli autori degli articoli, comprese le loro fotografie, sono creati dall’intelligenza artificiale: “C’è un intero sito che imita lo stile del New York Times, i suoi reporter sono creati con l’intelligenza artificiale e il sito stesso è parte di un più grande network di domini”, dice al Foglio van Sant. “Sono molto creativi negli articoli, argomentando posizioni e narrazioni del Partito, ma la cosa più allarmante è che molti di questi articoli sono stati presi e rilanciati da media considerati mainstream, come Newsweek e il Daily Mail. E’ così che la disinformazione si diffonde più facilmente”. Per quanto riguarda l’Italia, il Beijing Times ha dedicato per esempio diversi articoli alla Via della seta e al rischio che avrebbe corso il nostro paese se avesse deciso di uscirne – uno addirittura per difendere l’anonimo Eusebio Filopatro, sedicente accademico italiano che sul Global Times (altro giornale di Partito) firmò con pseudonimo un articolo per dire a Meloni di preferire Pechino a Washington.
Secondo van Sant, Pechino ha capito che ha bisogno di un metodo per superare la diffidenza del pubblico internazionale quando legge delle notizie direttamente sui media legati ai governi di paesi autoritari: è il caso della Russia con Rt e Sputnik, per esempio. E così si passa attraverso gli accordi con giornali e media locali – che traducono per esempio i lanci dell’agenzia di stato Xinhua o gli articoli del Quotidiano del popolo senza verifiche – oppure con siti internet che si fingono d’informazione e in realtà fanno propaganda pro Cina. Sappiamo ormai che “i media statali cinesi si coordinano con la Russia, condividono tattiche e tecniche negli sforzi di propaganda”, dice van Sant. “Ma negli ultimi anni abbiamo visto la Cina più aggressiva da questo punto di vista”. Ma come si fa a spiegare la differenza fra il sistema dei media occidentali e quello che fa la Cina? “La più grande differenza fra le loro news e le nostre è che tutto quello che viene dai media ufficiali cinesi, a oggi, viene dalla leadership del Partito, aderisce ai suoi obiettivi. E infatti le notizie sono tutte uguali, non esiste pluralismo”. Gli obiettivi del Partito sono quelli di creare il caos, dividere l’Europa, smantellare il sistema democratico offrendo una versione edulcorata e vincente dell’autoritarismo di Pechino instillando il dubbio fra i lettori, anche europei, anche italiani.
Nell’agosto scorso, in occasione della visita della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Pechino, il fondatore di Class editori Paolo Panerai, editore di Italia Oggi, Milano Finanza e Class Cnbc, aveva ampliato la collaborazione con i media cinesi firmando un accordo con il Quotidiano del popolo, giornale organo del Comitato centrale del Partito comunista cinese, dopo quello già in essere con China Media Group e Xinhua, l’agenzia di stampa ufficiale di Pechino.