La presidente del Consiglio Giorgia Meloni (foto LaPresse)

a Beirut

Per Meloni, Unifil e migranti sono dossier complementari. Come quello per normalizzare Assad

Luca Gambardella

La guerra in Libano e l’immigrazione sono due facce della stessa medaglia e i due dossier vanno affrontati in modo coordinato. L’Unhcr predica calma sui rimpatri in Siria. Ma la presidente del Consiglio ha fretta. 

L’Italia non arretra, Unifil resterà al suo posto e forse sarà addirittura rafforzata. E’ questa la rassicurazione che Giorgia Meloni porterà oggi in dote al premier libanese Najib Mikati e al presidente del Parlamento, Nabih Berri, nel corso della visita in programma in Libano. Ma una volta fatte queste dovute premesse, la presidente del Consiglio chiederà ai suoi interlocutori di rimettersi a parlare di migranti. Perché Meloni è volata a Beirut – e prima ancora ad Aqaba, per incontrare il re di Giordania Abdallah II – pensando a Damasco. La premier ha un piano per il Libano e la Siria, un piano che per la verità non tutti nel governo italiano condividono in toto.

 

Se il ministro della Difesa Guido Crosetto aveva detto di essere pronto a spostare gli oltre mille militari italiani se gli attacchi di Israele contro Unifil fossero proseguiti, Meloni invece vede nei suoi Caschi blu una delle garanzie per essere ascoltata in medio oriente. Restare in Libano significa dimostrare al mondo arabo che l’Italia non cede alle aggressioni di Israele, definite “ingiustificate” dalla premier. “Nessuno è in grado di fare il lavoro che fa Unifil come lo facciamo noi. E gli arabi lo sanno”, dicono dagli ambienti militari italiani. Il governo ha recepito il messaggio: delegittimare la missione Onu significherebbe fare venire giù la rete diplomatica messa in piedi dal governo in oltre un anno di lavorio segreto e meticoloso. La guerra in Libano e l’immigrazione sono due facce della stessa medaglia – come dimostrano gli oltre 10 mila siriani che dall’inizio dell’anno sono sbarcati sulle nostre coste – e i due dossier vanno affrontati in modo coordinato. Lo ha detto la stessa Meloni, martedì scorso in Senato: “L’escalation militare ha aggravato anche la crisi dei rifugiati in Siria e Giordania. E’ fondamentale affrontare questa emergenza che merita un impegno ancor più determinato dell’Europa”. 

 

Per farlo, Beirut è l’interlocutore d’obbligo. Dall’inizio dell’offensiva israeliana nel sud del Libano, 264 mila persone sono fuggite per cercare riparo in Siria, ma il dato è molto più alto, intorno alle 300 mila persone, se si considerano anche gli attraversamenti irregolari e non registrati dalle organizzazioni internazionali (qui una mappa dettagiata). Secondo l’Unhcr, i siriani che fuggono sono il 70 per cento, coloro che a loro volta erano scappati dalla guerra civile in Siria, e solo il 30 per cento libanesi. “La posizione italiana è che occorra rivedere la Strategia dell’Ue per la Siria e lavorare con tutti gli attori, per creare le condizioni affinché i rifugiati siriani possano fare ritorno in patria in modo volontario, sicuro e sostenibile”, ha spiegato Meloni. A Beirut si parlerà di come creare le condizioni affinché la crisi umanitaria in Libano sia gestita tenendo a mente il vero obiettivo: rimandare in patria il milione e mezzo di siriani che in questi anni si sono riversati in Libano e che minacciano di raggiungere l’Europa. “Per questo abbiamo rafforzato la nostra presenza diplomatica in Siria”, ha spiegato la premier, che ha rivendicato la nomina di un ambasciatore italiano a Damasco, unico paese dell’Ue e del G7 a farlo. 

   

Mentre le organizzazioni della società civile siriana in Europa si chiedono che ne sarà delle accuse per crimini di guerra mosse contro Bashar el Assad, il governo italiano auspica invece un cambio di passo. “Va cambiato paradigma. Quello che è stato finora, l’abbiamo visto, non funziona per migliorare la situazione dei diritti umani in Siria”, spiega al Foglio una fonte diplomatica. “E’ il momento di provare qualcosa di diverso, di parlare con Assad”. E visto che a Bashar interessa soprattutto parlare di sanzioni, l’obiettivo italiano è di sensibilizzare l’Ue a evitare casi di “over-compliance”, ovvero di applicazioni troppo rigorose delle restrizioni economiche imposte contro il regime. “Se evitassimo di accanirci su alcuni aspetti ne trarrebbe beneficio la popolazione”, spiega il funzionario italiano. “Se va riparata una centrale elettrica ma non posso farlo perché non posso esportare in Siria i pezzi di ricambio, ecco, questo è un problema che impatta sui siriani ma su cui possiamo discutere”. Assad, alla ricerca di legittimità e denaro, apprezza e in cambio mostra buona volontà nel riaccogliere i siriani scappati in questi anni, per dimostrare all’Europa che la Siria non è un paese insicuro come si crede, che è lui a tenere saldamente in mano il potere. Ma mentre i libanesi sono accolti in centri ad hoc – a Damasco, Tartous, Latakia, Homs e Hama, aree che il regime considera sicure – per i siriani che fanno ritorno il trattamento è diverso. Molti di loro scappano a nord, nei territori sotto il controllo dei ribelli, perché temono la coscrizione obbligatoria imposta dal regime, motivo per cui gli uomini in età di arruolamento se possono preferiscono restare in Libano, mandando in Siria mogli e figli.

   

L’Italia e altri paesi dell’Ue però sono convinti che l’unica soluzione sia quella di creare in Siria “safe zone” dove reinsediare in sicurezza chi desidera fare ritorno nel paese. Per farlo “ci avvaliamo dell’aiuto della Mezzaluna Rossa e dell’Unhcr – spiegano al Foglio – Spetta a loro assicurare il rientro in sicurezza di chi vuole rientrare”. Tuttavia non è chiaro come possa un funzionario dell’Onu garantire che la spietata shabiha di Assad – la polizia segreta – possa garantire l’incolumità dei profughi una volta varcata la frontiera. La stessa Mezzaluna Rossa è accusata di connivenza con il regime e le testimonianze di chi è  fuggito dal Libano e ha raggiunto il nord della Siria, verso Idlib, dicono che molti preferiscono usare dei valichi informali ed evitare di essere registrati all’ingresso, restando dei fantasmi non solo agli occhi del regime, ma anche delle organizzazioni umanitarie, di cui non si fidano.

 

L’Alto rappresentante dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi, si è recato a Damasco la settimana scorsa per incontrare Assad: “Servono 425 milioni di dollari per fare fronte alla crisi dei profughi” fra Libano e Siria, è stato l’appello che ha lanciato all’inizio del mese. L’Unhcr è impegnata nella gestione dell’esodo alle frontiere con il Libano, bombardate  dall’aviazione israeliana e dove migliaia di persone arrivano stremate ogni giorno. Ma come confermato dagli ambienti del ministero degli Esteri, sta anche collaborando con Italia ed Europa per rimpatriare i rifugiati in Siria. Il momento però è critico, vista l’escalation in Libano: “Agli europei chiediamo solo una cosa per ora – spiega al Foglio un alto funzionario dell’Unhcr – Abbiate pazienza”. L’Italia sembra averne, ma non all’infinito.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.