Foto ANSA

chi raccoglie le olive?

L'entusiasmo per il protocollo Italia-Albania in Ue è già scemato. La sfida demografica

David Carretta

Nell’Ue si assiste a un fiorire di idee vecchie e nuove per deportare non solo migranti irregolari, ma anche richiedenti asilo. I problemi dell’opzione “return hub” e un paradosso: secondo i dati non c’è nessuna crisi in Ue

Bruxelles. L’accordo al Consiglio europeo di giovedì sulla politica migratoria segna uno spostamento degli equilibri interni all’Ue, dove la linea di Giorgia Meloni è diventata il nuovo mainstream. I leader dei ventisette stati membri si sono impegnati a lavorare su “nuove modalità” di gestire i flussi. Ma i numeri dicono che non c’è un’invasione a causa di ingressi irregolari. E molte delle idee discusse sono irrealizzabili, inefficaci, giuridicamente fragili o non fanno i conti con la realtà demografica. “Chi raccoglierà le nostre olive?”, si è chiesto il premier greco, Kyriakos Mitsotakis

Sull’onda del Protocollo tra l’Italia e l’Albania, nell’Ue è stato un fiorire di idee vecchie e nuove per deportare non solo migranti irregolari, ma anche richiedenti asilo: creazione di “return hub” (centri di deportazione) in paesi terzi; nuova direttiva sui rimpatri per togliere le garanzie attuali per i migranti; revisione del concetto di paese terzo sicuro per fare in modo che anche chi ha il diritto alla protezione internazionale possa essere deportato nei paesi di transito. Ma tutte le “soluzioni innovative” discusse al Consiglio europeo presentano problemi. L’entusiasmo per il Protocollo Italia-Albania è scemato, quando i leader hanno guardato ai dettagli del meccanismo: troppi rischi giuridici per un migliaio di migranti che alla fine, anche se senza diritto all’asilo, potrebbero essere trasportati in Italia. I “return hub” sono stati apertamente criticati come inefficaci dal premier belga, Alexander De Croo. La revisione del concetto di paese terzo sicuro per deportare i rifugiati in un paese di transito implica il consenso del paese in questione. I precedenti tentativi del 2018 di creare delle piattaforme di sbarco o degli hotspot si sono scontrati con il rifiuto della Tunisia e di altri paesi di riammettere migranti di altre nazionalità.

Mitsotakis è un leader conservatore, membro del Partito popolare europeo, che usa un doppio linguaggio a seconda dell’audience interna o internazionale. Giovedì, in un’intervista al Financial Times, ha espresso dubbi sulla possibilità di replicare il Protocollo tra l’Italia e l’Albania e, con la domanda su chi raccoglierà le olive greche, ha ricordato la sfida demografica che ha di fronte l’Ue: per mantenere la produttività servono migranti, qualificati o non qualificati, e molti. “Se vuoi costruire un grande muro, hai bisogno anche di una grande porta”, ha avvertito il premier greco. Lo stesso Mitsotakis, poi, parlando con i giornalisti greci ha detto di essere interessato ai “return hub”. Chiesto da una quindicina di paesi, il concetto è sostenuto dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, e prevede di inviare in centri ospitati da paesi terzi i migranti che sono stati espulsi, ma non possono essere rimpatriati nel loro paese di origine. Ma i “return hub” presentano diversi problemi di carattere giuridico, pratico e politico. Lo ha riconosciuto la stessa von der Leyen. “Ci sono domande aperte: per quanto tempo le persone possono rimanere lì? Cosa si fa se un rimpatrio non è possibile?” ha detto von der Leyen. “Non è banale”. I numeri sarebbero molto limitati rispetto ai 400 mila migranti l’anno che ricevono l’ordine di lasciare il territorio dell’Ue. Non ci sono molti paesi terzi (forse nessuno) candidati a ospitare “return hub”. I Paesi Bassi hanno annunciato discussioni con l’Uganda, dove deportare i migranti della regione in attesa di rimpatrio. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha ricordato al premier olandese, Dick Schoof, che sarebbe “una goccia nell’oceano”. Il ministro degli Esteri ugandese, Okello Oryem, ha risposto ricordando che il suo paese non deporta i rifugiati e che ne ospita già 1,6 milioni, in gran parte dal Sudan.

Il paradosso dell’emergenza migranti al Consiglio europeo è che i dati ufficiali dell’Ue non mostrano una crisi. Siamo lontani dal milione e oltre di ingressi irregolari del 2015. Nei primi nove mesi del 2024, secondo Frontex, il calo è stato del 42 per cento rispetto al 2023. La Commissione ha ammesso che più dei due terzi del milione di richiedenti asilo – quelli che pesano di più sui sistemi sociali nazionali – sono entrati nell’Ue in modo regolare, con un visto o grazie a un regime “visa free”. Prima del Consiglio europeo l’olandese Schoof ha ammesso che si tratta di una “crisi percepita”. L’emergenza è tutta politica: l’irrigidimento delle politiche migratorie da parte dell’Ue è la risposta affrettata alla crescita dell’estrema destra nelle urne. “La politica sono emozioni. Non ci sono dubbi che l’immigrazione è un problema usato, abusato, strumentalizzato”, ammette uno dei membri del Consiglio europeo: “Se non siamo in grado di dimostrare che riprendiamo il controllo, facciamo vincere tutti quelli che all’interno o all’esterno vogliono usare l’immigrazione per destabilizzare l’Ue”. Eppure i sondaggi dicono che l’immigrazione irregolare è scesa nella classifica delle priorità dei cittadini dell’Ue. L’estrema destra vince per ragioni che vanno ben oltre i migranti. Per contro il problema di chi raccoglierà le olive rimane.