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L'editoriale dell'elefantino

La guerra finisce quando è vinta

Giuliano Ferrara

Il boia Sinwar non è morto “per caso”. E la decapitazione di Hamas offre l'occasione per impostare una politica del dopo, il negoziato sugli ostaggi e porre fine all'incubo di un paese intero: chi ha avuto ragione e chi torto

A leggere certi giornali, e non con speciale malizia, sembra che il boia Sinwar sia morto in un incidente stradale, “per caso” scrivono, e che la sua morte debba essere considerata alla luce di una possibile “fine della guerra”. Putin ha fatto sapere tramite il suo portavoce Peskov che è preoccupato perché la eliminazione “del capo dell’ufficio politico di Hamas” (sic) apre una fase in cui non sarà facile evitare altre vittime civili, problema che sta molto a cuore all’invasore e distruttore dell’Ucraina. Il New York Times definisce Sinwar “militant leader”, una specie di Che Guevara, e non riesce a farsi scappare, come la Bbc, la formula di “capo terrorista”. I commenti del mondo liberal sono stilisticamente quasi univoci: l’eliminazione di Sinwar è il momento buono per liberarsi di Netanyahu, che è un ostacolo per una soluzione politica del conflitto a Gaza e nel Libano.


Si era capito male. Credevamo che i militari dell’Idf, giovani israeliani che combattono e muoiono da oltre un anno per eliminare gli autori del pogrom del 7 ottobre e difendere il loro paese e il loro diritto di vivere in pace, avessero ucciso un gruppo di terroristi e tra questi Sinwar nel corso di una operazione di pattugliamento; che lo avessero fatto nei pressi di Rafah, un luogo che la diplomazia internazionale e l’opinione pubblica benpensante consideravano off limits per i combattimenti. 


Una enclave dove il governo di Gerusalemme aveva deciso di entrare contro il parere censorio dell’Onu e del partito umanitario, e dove è entrato dopo settimane di tira e molla e minacce di interrompere forniture militari da parte degli alleati, perché riteneva che Sinwar si nascondesse proprio lì, protetto da ostaggi rapiti nei kibbutz e in una zona meno insicura per eventuali fughe con soldi e passaporti falsi dell’Unrwa; pensavamo che la conclusione dei fatti, sotto gli occhi di tutti, fosse una clamorosa smentita della diffusa teoria secondo la quale Netanyahu voleva andare a Rafah per prorogare nel tempo la sua funzione di primo ministro e manovrare da politicante in favore di una guerra senza limiti e senza pietà.  


Ora è evidente che la decapitazione di Hamas è un’occasione per il negoziato sugli ostaggi, per assumere una posizione di pressione e di forza ulteriore nel rivendicare la fine di un incubo e di una tortura che riguarda le famiglie e il paese intero sfregiato dal pogrom e dal sequestro. Chiaro che ci si deve interrogare su quanto si possa fare per impostare, come ha detto d’altra parte lo stesso primo ministro, la politica del dopo, del dopo Hamas, con tutte le garanzie necessarie per un paese ferito a morte e con una visione del futuro di pacificazione e ricostruzione dopo la tragedia. Chiaro, in sostanza, che aveva ragione lo studente che issò il cartello Free Gaza from Hamas in faccia ai manifestanti che volevano la Palestina libera dagli ebrei israeliani. Chiarissimo che avevano torto i guru saccenti certi della inanità della guerra di Gaza contro i terroristi, quelli che non vedevano l’uso dei civili, delle scuole, delle moschee, degli ospedali, dei centri umanitari in funzione di scudo umano per il rifugio dei “leader militanti”, quelli che dannavano chi combatteva e chiedevano da mesi, nella febbre del negoziato agitata come feticcio ideologico, un più o meno immediato cessate il fuoco. Bisognerà che storici e gente di buon volontà, autenticamente umanitaria, rispieghino per l’ennesima volta, però, che le guerre di autodifesa, le guerre giuste, devono finire quando sono vinte da chi le conduce a buon diritto contro un nemico spietato e risoluto a perseguire la sua logica fanatica di annientamento. Il nome della fine della guerra, in questi casi, si definisce come vittoria. 
 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.