medio oriente

La morte di Sinwar è davvero "l'inizio della fine"?

Micol Flammini

La guerra non finisce ora, Hamas non ha smesso di esistere ma è tramortita: il gruppo era abituato a funzionare come un'orchestra, Sinwar l'ha trasformato in uno show da solista. La successione, l'accordo sugli ostaggi, l'impatto sull'Iran

E’ davvero questo l’inizio della fine, come ha detto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dopo l’eliminazione di Yahya Sinwar? Hamas esiste ancora, ha ricevuto un colpo molto forte ma, quando il movimento è nato, è stato pensato per sopravvivere a qualunque urto. Ha una struttura dispersiva, con molti leader, con un consenso generale sulle decisioni da prendere, ma finora nessuno aveva trasformato il gruppo quanto Sinwar, autore di un accentramento del potere unico nella storia di Hamas. Netanyahu ha fatto un’offerta ai terroristi: lasciate andare gli ostaggi e Israele vi risparmierà. Ci sono poche indicazioni che il gruppo voglia accettare, nonostante abbia perso la mente più organizzata e feroce, che aveva scritto nel dettaglio la storia del 7 ottobre, e per questo Netanyahu non ha parlato di fine della guerra, ma di inizio della fine. A tenere in vita Hamas è il suo ufficio esterno, gli uomini che vivono al di fuori della Striscia di Gaza, i più protetti, uomini di relazioni e connessioni, e che, a eccezione di Ismail Haniyeh ucciso a Teheran e Saleh al Arouri ucciso a Beirut, si sentono al sicuro tra i palazzi di Doha e i quartieri di Istanbul. Sinwar pensava e agiva, dall’esterno gli arrivavano i mezzi per pensare e per agire. C’è un libro utile da sfogliare per capire il gruppo, per cogliere il significato dei suoi movimenti, leggere tra le parole; si intitola Hamas Lexicon, è passato tra le mani di molti uomini dell’intelligence e lo ha scritto Guy Aviad che, parlando con il Foglio, illustra come i meccanismi esterni abbiano retto il gruppo per tutti questi anni e sono ancora al loro posto.


L’ufficio di costruzione ha per anni fatto arrivare all’ufficio militare tutto quello di cui aveva bisogno: armi, informazioni, tecnologie – spiega – mentre il dipartimento finanziario che da Istanbul gestisce il denaro e le attività economiche non è stato per nulla danneggiato”. Dentro la Striscia tutto è cambiato, i miliziani sono sempre impegnati in azioni di guerriglia, non desistono nella guerra d’attrito, anche se non sono più un esercito. Israele ha colpito soprattutto gli uomini di Hamas dentro la Striscia, a uno a uno sono stati eliminati, Sinwar ha  approfittato della loro morte per accrescere il suo controllo e dopo la morte di Mohammed Deif, con cui aveva costruito le brigate pronte a combattere contro Israele, aveva diviso Gaza in due. La parte nord è stata messa sotto il controllo di Az al Din Haddad, comandante potente e desideroso di notorietà. La parte sud invece è nelle mani di Mohammed Sinwar, fratello minore di Yahya, nato a Khan Younis, cresciuto nell’ufficio militare del gruppo durante la Prima Intifada, diventato miliziano durante la Seconda, tenace e spietato non ha mai lasciato la Striscia: “Può avere soltanto un ruolo militare, non ha nulla di politico, nulla di programmatico, in questo momento però è l’ultimo a cui rivolgersi riguardo alla crisi degli ostaggi”, dice Aviad. 

 


“L’inizio della fine” riguarda gli ostaggi, l’offerta di Netanyahu è un riferimento alla liberazione degli oltre cento rapiti che sono ancora nella Striscia, Hamas oggi ha risposto che non si fermerà: anche senza Sinwar continuerà a pretendere le stesse cose: cessate il fuoco permanente, ritiro totale di Tsahal da Gaza, un numero spropositato di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane da liberare. Sembra essere una ruota, una fine che non arriva perché si scontra con il Dna di Hamas e con una valutazione sullo stato degli ostaggi: Sinwar si era circondato dei sei israeliani uccisi mentre Tsahal stava per arrivare a liberarli, altri sono nelle mani del Jihad islamico, dei civili che hanno preso parte al 7 ottobre senza nessuna particolare affiliazione, a famiglie a cui sono stati affidati, o introvabili tra le macerie. La guerra non è finita, il presidente americano Joe Biden dice di sperare che si apra ora l’opportunità della pace, ponendosi quindi sulla stessa linea del primo ministro israeliano. Nessuno dentro al gruppo ha voglia di fermarsi, ma deve fare i conti con una scossa che è arrivata fino all’Iran, che aspetta l’attacco israeliano, e con quello che il gruppo stesso è diventato: Hamas era un’orchestra che Sinwar ha cercato di trasformare in uno show da solista. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)