l'intervento
La campagna dell'Anpi, l'iniziativa Boldrini e l'impossibilità di Israele di difendersi senza armi
Ci sono due false convinzioni alla base della richiesta di disarmare lo stato ebraico. I libri di Gad Lerner e Anna Foa, e un’equiparazione scellerata
Le compagne e i compagni dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani italiani, pensavano di essere gli eredi della brigata Garibaldi, o almeno così ci hanno fatto credere per molti anni. Invece si ritrovano a essere Ansar Allah, i Partigiani di Dio, che poi è il nome di battaglia degli houthi. L’ultima campagna dell’Anpi è racchiusa nello slogan: “Basta armi a Israele!”. E’ la stessa iniziativa promossa da Laura Boldrini e sottoscritta da autorevoli personaggi in primis Gad Lerner. Oltre a varie sanzioni proposte per i ministri israeliani e la sospensione degli accordi tra Unione europea e Israele, i promotori chiedono di smettere di vendere armi allo stato ebraico. Si differenzia dalla lettera di richiamo da Washington a Gerusalemme, poiché gli Stati Uniti condizionerebbero l’invio di armi offensive a un miglioramento della situazione umanitaria a Gaza, non delegittimano il proseguimento della guerra e non mettono in dubbio la prosecuzione del rifornimento delle armi di difesa.
L’“iniziativa Boldrini” non distingue ed è l’uovo di Colombo: niente armi, niente guerra! L’idea è stata rilanciata alla Camera dei deputati dalla segretaria del Pd Elly Schlein e del M5s Antonio Conte che vorrebbero un embargo europeo. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha detto che l’Italia ha già sospeso le licenze. Sebbene si tratti di uno scenario irrealistico, cosa succederebbe a Israele senza armi? Come farebbe Israele a difendersi dal fondamentalismo islamico dell’Iran e dei suoi alleati Hezbollah, Hamas, milizie sciite irachene e houthi (quelli che lanciano missili dallo Yemen, non quelli presieduti da Gianfranco Pagliarulo), che da anni hanno detto e ripetuto di voler distruggere Israele? Come farebbe a fronteggiare la Siria di Bashar el Assad, il dittatore che negli anni scorsi, anche grazie a Hezbollah, ha ammazzato centinaia di migliaia di siriani, che è un alleato della Russia e dell’Iran, è in guerra con Israele e dal suo territorio arrivano attacchi contro lo stato ebraico? Quanti 7 ottobre sono ancora necessari per capire che, quando questi soggetti invocano di cancellare Israele dalle mappe geografiche, non è sterile propaganda, ma un progetto chiaro con obiettivi definiti, previsioni, calcoli, un business plan dell’orrore? I compagni dell’Anpi e Laura Boldrini quanti 7 ottobre vogliono ancora vedere? Parafrasando Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, questa proposta “non nasce dal nulla”. Alla base vi sono almeno due false convinzioni.
La prima è che Israele stia compiendo un “genocidio” e il paragone con la Shoah porta con sé il monito che si è depositato (e giustamente) negli anni, il “mai più”. Tutto è lecito per fermare un “genocidio”. Inutile su questo giornale spiegare perché questa sia una bufala e come questa calunnia – che ha fatto capolino fin dalla fine degli anni ’40 in contesti cattolici, sia quello della Chiesa latina di Gerusalemme sia quello della Chiesa cattolica italiana – cerchi di ribaltare le vittime in carnefici utilizzando la forza del rifiuto del nazismo per combattere Israele, in una spericolata e cinica mossa di judo rilanciata decenni fa dalla propaganda sovietica con grande pervasività in una parte della sinistra occidentale fin dagli anni settanta. Che il presidente Pagliarulo, già esponente dei Comunisti italiani, si faccia a propria volta promotore di questa panzana non dovrebbe sorprendere, ma amareggia che venga fatto in nome dei partigiani.
La seconda falsa convinzione è più sottile ed è proposta anche da intellettuali più attendibili. Si ritiene che la guerra sia il frutto dell’aggressività israeliana, che intenderebbe impedire ai palestinesi di avere un proprio stato, e non del rifiuto fondamentalista all’esistenza stessa di uno stato ebraico in mezzo alla terra dell’islam e all’ambizione indubitabilmente genocidiaria mostrata in mondovisione il 7 ottobre. Si nega che sia in atto una guerra tra fondamentalismo islamico e democrazia, perché altrimenti disarmare Israele vorrebbe dire fare il gioco dei briganti. Hamas e il governo israeliano sarebbero speculari, opposti estremismi che si nutrirebbero l’uno dell’altro. La destra israeliana rappresenterebbe la crisi della democrazia occidentale in un avvitarsi di estremismo religioso e nazionalistico per sua natura espansionista. In tal senso va la lettura complessa e articolata proposta da Gad Lerner in “Gaza” (editore Feltrinelli) e da Anna Foa in “Il suicidio di Israele” (editori Laterza). Due volumi preziosi per chi nulla conosce del conflitto araboisraeliano e tende in modo manicheo a dividere torti e ragioni, ma a mio avviso entrambi i volumi conducono a un errore fatale. Stretti tra l’accusa dei supposti crimini di guerra israeliani e l’affetto che i due autori indubitabilmente nutrono per Israele, anziché confutarla, accolgono l’imputazione e accettano la mostrificazione, ma cercano di buttarla sul primo ministro Benyamin Netanyahu, sui ministri che ha dovuto portarsi in maggioranza, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, e su quella parte della società israeliana che rappresentano. Come se Lerner e Foa dicessero ai propri lettori, prendetevela con loro, ma salvate Israele. Nel proporre questa lettura possono farsi forti naturalmente dell’opposizione al governo che nella vibrante democrazia israeliana fa sentire la propria voce. Un’opposizione che nelle piazze israeliane manifesta soprattutto sul mancato accordo per la liberazione degli ostaggi, che viene attribuito alla responsabilità di Netanyahu. Alla vita di bambini, donne e uomini israeliani rapiti da più di un anno nei tunnel di Gaza (oltre che a quella dei tanti palestinesi vittime dei bombardamenti), il primo ministro avrebbe anteposto la propria sopravvivenza politica, ottenuta tramite la continuazione della guerra. Attenzione però, per molti israeliani che manifestano tutti i sabati sera contro Netanyahu, a un accordo sugli ostaggi sarebbe dovuta seguire comunque la guerra con Hamas. L’opposizione invece non sembra quasi esserci sulla guerra a Hezbollah, dopo che dal Libano sono piovuti quasi diecimila missili nell’ultimo anno, al punto che anche gli italiani pacifisti, che vivono nei kibbutz al confine, in più interviste hanno in questi mesi raccontato che non vedevano alternative a un intervento dell’esercito per riportare Hezbollah a nord del fiume Litani.
Tornando all’operazione culturale proposta dai libri citati, il sottoprodotto è mettere sullo stesso piano il fondamentalismo islamico di Hamas e il governo israeliano. Come se una marmaglia di tagliagole – nelle scorse settimane l’esercito di Israele ha liberato una ragazzina yazida rapita dieci anni prima dall’Isis e venduta a membri di Hamas – potesse avere la stessa dignità di un governo frutto di compromessi parlamentari, in una Knesset democraticamente eletta, in un paese con pesi e contrappesi, compresi una forte Corte Suprema e un esercito con le sue regole. Come è noto, il sostegno a questa guerra – che Israele non ha voluto, ma che è costretta a vincere – va ben oltre la maggioranza del governo Netanyahu. L’embargo delle armi indebolirebbe invece tutta Israele e non solo il governo. I promotori della proposta possono allora ringraziare gli intellettuali che firmano gli appelli e scrivono libri, poiché anche grazie a loro possono sostenere che la richiesta demagogica di disarmare lo stato ebraico sia un modo per far pressione a Netanyahu e non sia invece solo una forma, magari inconsapevole, di assecondare e sdoganare l’antisemitismo popolare. Puntualmente le reazioni sui social in massa festeggiano e preconizzano che, dopo averla disarmata, Israele possa prima o poi scomparire. In un bel bagno di sangue ebraico, anzi sionista, naturalmente.