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la ricostruzione

Le parole di Macron su Israele e l'Onu concorrono alla delegittimazione dello stato ebraico

Bruna Soravia

La risoluzione delle Nazioni Unite sarebbe stata nulla senza la vittoria nella prima guerra arabo-israeliana e nelle guerre successive. Come si compone il fronte anti israeliano e la novità della neutralità saudita 

Secondo un testimone anonimo, qualche giorno fa il presidente francese Emmanuel Macron avrebbe detto durante un consiglio dei ministri: “Il signor Netanyahu non deve dimenticare che il suo paese è stato creato da una decisione dell’Onu, e che pertanto non è il caso di sottrarsi alle decisioni dell’Onu”. Il premier israeliano Netanyahu ha replicato: “Ricordo al presidente francese che non è stata una risoluzione delle Nazioni Unite a istituire lo stato di Israele, bensì la vittoria ottenuta nella guerra d’indipendenza, con il sangue degli eroici combattenti, molti dei quali sopravvissuti all’Olocausto, anche a quello del regime di Vichy in Francia.” Poiché, come altre volte nel bar dello sport globale che è diventata la mediasfera, siamo chiamati a prendere posizione, vediamo quali sono i fatti.

La decisione delle Nazioni Unite citata da Macron è la risoluzione 181, che proponeva un piano di spartizione del territorio a ovest del Giordano e che fu approvata il 29 novembre 1947 grazie all’intervento energico degli Stati Uniti. Fra i contrari, oltre agli stati raccolti nella Lega araba, anche Grecia e Turchia ma perfino il blocco francofono sarebbe stato in forse fino alla fine, e avrebbe cambiato posizione dopo un intenso sforzo di lobbying da parte ebraica. La soluzione prevedeva l’assegnazione del 55 per cento del territorio alla comunità ebraica, il 42 per cento, corrispondente più o meno all’attuale Cisgiordania, alla regione settentrionale intorno ad Acri, a Gaza e a una parte del Negev, a quella araba. I due stati avrebbero costituito una unione economica e Gerusalemme con la sua regione sarebbe stata governata dalle Nazioni Unite.

L’approvazione del piano, accolta con entusiasmo dalla comunità sionista mondiale, fu rigettata dai paesi arabi e dai loro alleati. Pochi giorni dopo, gli ulema egiziani sunniti proclamarono il jihad mondiale in difesa della Palestina araba, mentre i delegati arabi all’Onu minacciarono di entrare in guerra se si fosse tentato di attuare la risoluzione, il cui unico risultato fu di far precipitare il conflitto fra la popolazione araba e quella ebraica, fra la fine di novembre 1947 e il 14 maggio 1948, giorno in cui David Ben Gurion proclamò la nascita d’Israele.

Un opinionista del Guardian, giornale diventato portavoce dell’antisionismo britannico di sinistra (titolo dell’articolo: “Israele è uno stato canaglia. Dovrebbe essere espulso dalle Nazioni Unite”), ha fatto osservare che la dichiarazione d’indipendenza letta da Ben Gurion cita, alla base dell’istituzione d’Israele, anche “la forza della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Allora aveva ragione Macron? Evidentemente no, perché questa dichiarazione, come ogni altra, sarebbe stata nulla senza la vittoria nella prima guerra arabo-israeliana, scoppiata il giorno dopo la proclamazione e durata fino al marzo del 1949, per non parlare della vittoria nelle guerre successive, quella del 1967 e quella del 1973. Detto altrimenti, senza quelle guerre, e in assenza di negoziati di pace che garantirebbero la sistemazione complessiva del territorio, Israele non esisterebbe. 

Nella realtà, affermazioni come quella del presidente francese, anche ammesso che sia dal sen fuggita e non la sua posizione ufficiale, concorrono alla generale delegittimazione di Israele in corso da un anno, insieme alle campagne mondiali di boicottaggio promosse dal Bds e dalle sigle affini, alle dichiarazioni e condanne di tribunali e funzionari delle Nazioni Unite, alla pletora di manifesti, lettere aperte e denunzie, all’affermazione nelle università occidentali del paradigma pseudo-storiografico del “colonialismo d’insediamento”, alle intimidazioni, minacce e violenze vere e proprie contro gli ebrei nel mondo. E questo di fronte al riconoscimento progressivo, da parte degli israeliani in primo luogo, che quello del 7 ottobre 2023 non è stato un attacco dimostrativo né tanto meno l’eruzione incontenibile di una rabbia repressa che pure esiste, come ripetono i media occidentali, ma l’attacco iniziale di una guerra, concertata con gli alleati dell’asse filoiraniano della “resistenza” e con il più che probabile assenso russo.

Il punto di partenza è stato studiato fin nei dettagli simbolici: il giorno di inizio citava, a distanza di cinquant’anni, il 6 ottobre 1973, anche allora un sabato di festa, che è la data dello “attraversamento”, come lo chiamarono gli egiziani, ossia l’altro momento della storia in cui l’esercito israeliano si fece trovare impreparato e subì l’invasione del suo territorio. La data è tuttora festa nazionale egiziana, nonostante nello stesso giorno, nel 1981, Anwar Sadat fosse stato ucciso durante i festeggiamenti ufficiali da un terrorista islamico, come punizione per gli Accordi di Camp David del 1979. Evocativo il titolo dell’operazione, “il Diluvio di al Aqsa”, citazione coranica del diluvio mandato da Dio per annientare il popolo ingiusto di Noè, seguito dal richiamo ad al Aqsa, la moschea di Gerusalemme nel Sacro recinto, il terzo luogo più santo dell’islam.

L’idea della guerra era nell’aria da tempo. Negli ultimi due anni Hamas si è astenuta da ogni tipo di scontro per ingannare Israele sulle sue intenzioni, mentre preparava il “grande progetto”, come è definito nelle minute di incontri segreti ritrovate in un nascondiglio di Sinwar, e stabiliva come avrebbe sostituito le istituzioni israeliane dopo la vittoria. Già dieci anni fa, Ismail Haniyeh, il gran capo di Hamas ucciso dagli israeliani il 31 luglio di quest’anno, annunziava però che “i tunnel che stiamo costruendo sono la nuova strategia di Hamas nella guerra contro Israele, la strategia dei tunnel. Sopra e sottoterra, voi, gli occupanti, sarete liquidati. Non c’è posto per voi nella terra di Palestina. Quello che le forze di resistenza stanno preparando segretamente per il prossimo scontro con Israele va oltre ogni immaginazione per Israele”.

Strategia dei tunnel che è stata portata avanti con disciplina e con risorse illimitate e ha sostenuto l’attacco del 7 ottobre, in effetti inimmaginabile se si dimentica che anche quello di cinquant’anni prima, che fece subito duemila morti (all’epoca solo militari: il massacro dei civili è la firma di Sinwar) fu imprevedibile ed ebbe uno strascico di accuse e commissioni d’inchiesta e condusse, nonostante la vittoria finale, alle dimissioni di Golda Meir, come forse avverrà oggi con Netanyahu. All’attacco sono seguiti i bombardamenti incessanti di Hezbollah sul nord di Israele, i missili a lungo raggio degli houthi e quelli lanciati, in modo più o meno convinto, dall’Iran. Sullo sfondo, il possibile coinvolgimento della Siria ma, dei molti fronti aperti, subito vittorioso è stato quello dell’opinione pubblica occidentale, come osservava Andrea Minuz su questo giornale. E’ una guerra che sta diventando di attrito, la più costosa e incerta, come quella che si svolse all’indomani della guerra-lampo del giugno 1967 e fino al 1971 e che in realtà, con il massacro degli atleti israeliani a Monaco e la contesa per il Golan, si congiunse alla guerra successiva del 1973. Come quella di allora, la guerra attuale è sui generis e poco leggibile, e non solo per la censura militare israeliana e la disinformazione di Hamas. Ancora: una guerra ha lanciato l’Olp e Arafat nel discorso della sinistra occidentale, l’altra ha reso Hamas la pupilla di volenterosi carnefici negli atenei e nelle piazze progressiste.

Diverso rispetto a tutte le guerre del passato in generale è invece il fronte anti israeliano, formato in prevalenza da stati e gruppi sciiti e con la regia iraniana, mentre nell’altra guerra la regia era dichiaratamente sovietica. Hamas, nata dai Fratelli musulmani sunniti, sembrerebbe l’eccezione in questo fronte religioso, a meno di considerare che il nemico è oggi, oltre a Israele, l’Arabia saudita, che per la prima volta non partecipa né finanzia la guerra dei musulmani contro il nemico sionista. La neutralità dei sauditi, oltre a quella più prevedibile dell’Egitto e a quella inevitabile dell’Olp, è in realtà l’elemento nuovo di questa guerra, soprattutto se si considera il ruolo preponderante avuto nel 1973 dal re saudita dell’epoca, Faisal II. L’ambizioso e spietato principe ereditario Mohamed bin Salman ha ripetuto qualche settimana fa di essere pronto alla pace con Israele in cambio di un impegno per la costituzione di uno stato palestinese, ma l’altra richiesta, implicita ma evidente, è l’eliminazione di Hamas e l’indebolimento dell’Iran. E tutto questo avviene con buona pace del presidente francese e della sua riscrittura della storia, singolare in un laureato di scienze politiche, e nonostante ogni decisione dell’Onu, che dal 1947 a oggi ha accumulato oltre 140 risoluzioni sulla questione israelo-palestinese.