La riconoscenza di Hamas. A tu per tu con il dottore che salvò la vita a Sinwar in prigione

Micol Flammini

Yuval Bitton ci racconta l’evoluzione del terrorista in carcere e la sua promessa: aspetteremo la vostra debolezza e vi attaccheremo. Ebbe in cambio l’uccisione di suo nipote il 7 ottobre. Storia della finestra di opportunità per rifare il medio oriente e di quanto siamo disposti a pagare

Era il 1979, quando Yuval Bitton, senza sapere cosa sarebbe diventato da grande e senza neppure avere idea di quale sarebbe stato il suo ruolo per Israele, scese in strada ad attendere l’arrivo del presidente egiziano Anwar al Sadat, che arrivava a Be’er Sheva per visitare l’università nel deserto del Negev, intitolata a David Ben Gurion. Bitton, in piedi al bordo della strada dove sarebbe passato Sadat, aveva dodici anni e se ne stava con le mani impegnate da due bandierine: una israeliana e l’altra egiziana. “Il presidente egiziano era stato un arcinemico di Israele, aveva dichiarato di essere pronto a perdere migliaia di soldati pur di danneggiare lo stato ebraico, ma in quel momento quello che contava non erano più le dichiarazioni del passato, era il presente, era un momento che ha rivoluzionato il medio oriente: Egitto e Israele avevano firmato un accordo di pace, per il quale tutti avevamo pagato un prezzo”, dice al Foglio Yuval Bitton, medico, ufficiale dell’intelligence, la cui vita si è incrociata più e più volte con la storia del suo paese, tanto da rendere inestricabili le sue vicende famigliari e le sorti nazionali. Bitton è stato il medico del servizio penitenziario israeliano nel quale venne portato Sinwar in stato confusionale, con forti giramenti di testa, lui capì che si trattava di qualcosa di molto grave, lo mandò in ospedale e venne operato di urgenza per un ascesso al cervello: “Era il 2004, lo stesso giorno ci tenne a dirmi che mi doveva la vita, perché secondo l’islam, nei confronti di chi salva la vita di un musulmano si rimane in debito per sempre. Parlavamo in un misto di ebraico e arabo”. Nel 2011 Sinwar venne liberato, prima di lasciare la prigione volle rivedere Bitton, che per i detenuti era “il dottore”, gli chiese il numero di telefono: “Disse che un giorno mi avrebbe chiamato per assicurarmi che era pronto a pagare il suo debito”. Il telefono non è mai squillato, ma la mattina del 7 ottobre, il primo pensiero di Bitton andò a quelle parole, alla vita salvata, al momento di quella visita. Bitton vive in un kibbutz a trenta minuti da Gaza, non si era accorto di nulla, è stata sua figlia ad  avvertirlo: “Mi chiamò dal Giappone per dirmi che Israele era sotto attacco, mi disse di accendere la televisione, un ufficiale mi mandò le immagini dei pick up con i terroristi a bordo per le strade di Sderot. Mi chiese: come può essere vero? Era vero”. Bitton sapeva bene chi ci fosse dietro all’attacco, poco dopo capì che non soltanto Sinwar non avrebbe mai mostrato la sua riconoscenza per avergli salvato la vita, ma si era portato via la vita di suo nipote: “Tamir viveva nel kibbutz Nir Oz e  faceva parte della kitat konanut, la squadra di soccorso che si è trovata a fronteggiare i terroristi. Erano circa cinque uomini contro centinaia di terroristi. Tamir, mio nipote, ha resistito per due ore, è stato portato a Gaza sanguinante, è morto nelle mani dei terroristi, il suo corpo è ancora lì”. L’esercito ha mostrato a Bitton le immagini di Tamir che veniva condotto nella Striscia: “L’ho visto mentre veniva linciato dalla folla, lo hanno lasciato sanguinare fino alla morte”. Bitton racconta che il 7 ottobre non ha potuto non pensare e ripensare al senso della riconoscenza, le parole gli scorrevano in testa in modo ossessivo: “riconoscenza, riconoscenza, riconoscenza”. 

 

Prima come medico, poi come capo della divisione di intelligence del carcere di Nafha, Bitton aveva trascorso molto tempo con Sinwar e altri terroristi, anche con i suoi compagni di cella, Tawfik Abu Naim e Vahi Moshtaha, era il “dottore”, aveva guadagnato una soglia di rispetto che altri ufficiali non avevano: “Quando Sinwar è entrato in prigione nel 1996 era uno dei tanti, determinato, carismatico, ma uno degli altri. Poi, dalla Seconda Intifada è cambiato, era un leader, era forte, il suo potere dentro la prigione cresceva e così anche il suo impatto all’esterno”. Bitton e Sinwar hanno centinaia di ore di conversazione alle spalle, l’accesso alla mente di un prigioniero da parte di un medico era diverso rispetto a quello  degli altri uomini dell’intelligence, anche una volta diventato capo di divisione. “La mattina del 7 ottobre, prima di sapere di Tamir, mi sono ricordato di cosa mi disse Sinwar alla fine della Seconda Intifada”. 

 

“Lo sento ancora con chiarezza: ‘Siete un paese forte, con armi nucleari, ma noi staremo a guardare, aspetteremo il momento in cui diventerete deboli e attaccheremo’. E’ quello che è successo, ha soltanto atteso per vent’anni”. Sinwar ha aspettato le proteste, l’azzardo del governo per cambiare la Corte suprema, ha osservato crescere un senso di scollamento che mai aveva colpito prima la società israeliana, e su questo punto debole,  il capo di Hamas voleva infierire. “Non si aspettava però che oltre alla società, anche il nostro esercito era diventato debole”. Per Bitton, Sinwar non sapeva fino a che punto l’assenza di Tsahal avrebbe consentito di compiere un attacco ancora più doloroso, potente, mortale. 

 

E’ passato del tempo prima che il dottor Bitton iniziasse a raccontarsi, lo ha fatto una delle prime volte nel libro “Israele, il giorno più lungo” di Sharon Nizza. Dal 7 ottobre gli torna spesso in mente il giorno in cui ha salvato la vita a Sinwar, il giorno in cui si è comportato come continuerebbe a comportarsi oggi, tra le sue mani sono passati molti massacratori della storia israeliana, a volte, mentre curava un terrorista, si rendeva conto che un altro fuori stava compiendo un attentato, ma questo non ha cambiato il suo modo di lavorare: “Ho pagato un prezzo altissimo il 7 ottobre, è dura, soprattutto per me che gli ho salvato la vita. La domanda però è più grande, va oltre la mia perdita personale e riguarda tutto il paese: il prezzo che tutto Israele ha pagato. Pensavamo di poter tenere a bada Hamas, credevamo che gli uomini come Sinwar fossero terroristi che potevamo comprare con i soldi, non abbiamo capito fino in fondo la differenza con Fatah”. 

 

Sinwar è stato rilasciato dopo una condanna a quattro ergastoli nell’ambito dell’accordo per la liberazione del soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006 dal fratello di Sinwar. Bitton era favorevole all’accordo ma non al rilascio del futuro leader di Hamas: “Nel frattempo era diventato un capo dentro la prigione, in carcere i gruppi di terroristi si riorganizzano nella struttura che hanno fuori, scelgono i loro capi, continuano a essere terroristi, considerano il carcere come parte della loro missione, sanno anche che li rafforza agli occhi della società palestinese. Ai tempi dell’accordo Shalit, Sinwar era contrario, pensava che il prezzo da pagare da parte di Israele dovesse essere più alto, Hamas non si sarebbe dovuto accontentare del rilascio di una parte dei detenuti, ma avrebbe dovuto accettare soltanto per la liberazione di tutti i terroristi: voleva vedere fuori i protagonisti degli episodi più sanguinosi delle Intifada, per lui quella era la vittoria”. Hamas alla fine accettò l’accordo, anche dietro la pressione che Bitton e altri avevano fatto su Saleh al Arouri, eliminato anche lui quest’anno, mentre si trovava a Beirut. “Per Israele Sinwar poteva essere rilasciato perché non era la mente o l’autore di attentati dentro lo stato ebraico, era in carcere per aver ucciso nella Striscia di Gaza, così fu rilasciato. Prima di uscire, promise a chi era rimasto dentro che avrebbe liberato tutti, conosceva ormai la mentalità israeliana, era determinato a fare ostaggi per costringere Israele a rilasciare detenuti”. Una volta fuori dal carcere di Nafha, Sinwar non era più lo stesso terrorista del 1996, era un leader determinato a prendersi tutto Hamas e Israele non aveva visto il suo potenziale: “Il nostro impegno nei confronti dei soldati e dei civili è sempre stato quello di andare ovunque per salvarli, a ogni costo. Il 7 ottobre abbiamo fallito, adesso dobbiamo pagarne il prezzo, quindi dobbiamo raggiungere un accordo con Hamas, anche se questo implica il rilascio di alcuni terroristi palestinesi. Sinwar era il più grande ostacolo, ora non c’è più”. Bitton delinea la storia di un gruppo che sarà pronto a scendere a compromessi, è sicuro che non esista un’opportunità più concreta di ora, ritiene che nella Striscia vada creata una convergenza di forze tra Arabia Saudita, Giordania, Egitto e Stati Uniti per rendere la situazione stabile e lasciar governare l’Autorità nazionale palestinese. “Hamas non è mai stato vicino all’Iran, l’asse della resistenza non voleva il 7 ottobre, quello doveva essere il piano di Hezbollah, Sinwar se ne è appropriato e l’ha svelato”. Bitton insiste nel dire che la morte di Sinwar è un’occasione storica, Israele ha già pagato un prezzo e deve pagare ancora per riavere gli ostaggi – “è il costo del nostro fallimento” – ma ha paura degli errori politici, delle valutazioni sbagliate sul dopoguerra. “Non sono felice se il mio nemico viene eliminato, ma quando ho saputo della morte di Sinwar ho capito che da un anno non avevamo mai avuto motivo di ottimismo come in quel momento: non si è chiuso il cerchio, ma può chiudersi”.

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)