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in libreria

Fare i conti con l'orrore della Shoah

Lucetta Scaraffia

Alla cultura cattolica s’impone, ora più che mai, una revisione del rapporto con il popolo ebraico. Un libro di Nina Valbousquet

Sospetto che oggi siano ben pochi i giornalisti e gli storici che sanno il francese. Questa e solo questa, infatti, può essere la ragione per cui è passata sotto silenzio la ponderosa ricerca di Nina Valbousquet – Les âmes tièdes. La Vatican face à la Shoah, quasi cinquecento pagine di fitta documentazione – che offre elementi nuovi e di grande importanza relativi al comportamento della Santa Sede di fronte al genocidio ebraico.
La giovane storica francese  ha trascorso tre anni a ricostruire la politica della Santa Sede nei confronti degli ebrei attraverso il materiale conservato negli archivi del Vaticano riguardante il pontificato di Pio XII e ha fatto scoperte importanti, suffragate da una imponente mole documentaria, relative al rapporto fra le gerarchie cattoliche e gli ebrei nel periodo cruciale delle leggi razziali e dello sterminio. Scoperte che cambiano in modo significativo la ricostruzione dei fatti comunemente accettata fino a questo momento.

 

Fino a oggi, infatti, alle accuse un po’ sgangherate contro Pio XII rilanciate dal testo teatrale Il Vicario, di Rolf Hochhuth poi trasformato in un film, molti storici avevano risposto accettando di fatto un’interpretazione tutto sommato benevola delle azioni della Santa Sede, a eccezione di qualche episodio critico ma circoscritto. Interpretazione benevola naturalmente fatta propria dal Vaticano stesso – oggi possiamo dirlo – grazie a un’ operazione costante di occultamento degli atti più gravi e di esaltazione dell’opera caritatevole volta a salvare gli ebrei perseguitati.

 

Dalla documentazione emerge che viceversa questa carità fu soprattutto circoscritta agli ebrei convertiti, o ai figli delle coppie di unione mista, cioè ai cosiddetti fedeli non di razza ariana, piuttosto che agli ebrei in generale. E se un certo aiuto fu senza dubbio fornito in molte occasioni, anche a Roma dopo la razzia del 16 ottobre 1943, questo fu elargito per iniziativa di singoli ecclesiastici  o religiosi, senza che dal Vaticano venissero allora parole di sostegno e di approvazione. Anzi, nei documenti vaticani s’incontrano continui allarmi e avvertimenti a non accompagnarsi troppo da vicino ai “giudei”, che con la loro influenza negativa possono contaminare la vera fede. Il Vaticano infatti non può accettare che le anime dei fedeli siano messe in pericolo da  un contatto prolungato con degli ebrei: fino al punto che l’intensa attività del  cappuccino francese Marie-Benoît de Bourg d’Iré volta a salvare ebrei a Roma viene vista con una vera e propria apprensione. Avendo  protetto migliaia di persone il frate è stato onorato da Israele, come uno dei primi “giusti tra le nazioni” mentre in Vaticano, dopo la fine del conflitto, egli fu addirittura sottoposto a un processo dal Sant’Uffizio per sospetta contaminazione spirituale con l’ebraismo. Anche in tempo di pace, infatti, il cappuccino continuava a frequentare ebrei, organizzando con loro un gruppo di lettura dell’Antico Testamento, e mettendo così di fatto in dubbio – sospetta il tribunale – che la religione cattolica sia l’unica vera e che la rivelazione veterotestamentaria debba essere letta solo come una preparazione al Nuovo Testamento.

 

Nel 1944 il Vaticano aprì un’ indagine formale carica di sospetto sugli ebrei nascosti tra le sue stesse mura. Veniamo così  a sapere che tranne pochissimi casi gli ebrei furono nascosti da impiegati o sacerdoti di secondo piano, all’insaputa dei superiori, che anzi appena a conoscenza della cosa, invitano subito  i loro subordinati a liberarsi  dei loro ospiti, ritenendo la circostanza pericolosa. I protettori degli ebrei però resistono, facendo presente che se espulsi dalla città leonina  la loro vita sarebbe immediatamente in pericolo. In tutti questi casi, così come in quelli degli istituti religiosi che nascondono gli ebrei, la documentazione presente in questo libro  mostra che le gerarchie vaticane sospettano sempre che, invece della  pietà, a determinare la scelta sia stato il denaro, elargito generosamente dai giudei che come si sa sono ricchissimi. In realtà, bastava un simile sospetto, come si capisce,  a mettere in cattiva luce una scelta ispirata invece a una genuina  carità cristiana.

 

Già dal 1942, e successivamente sempre con maggiore abbondanza di informazioni, in Vaticano arrivano notizie dello sterminio degli ebrei messo in atto nell’Europa dell’est e in Germania. Si trattava di notizie inviate dai nunzi, dai vescovi, dai sacerdoti: una rete capillare, che forniva informazioni dettagliate e talvolta anche fotografie raccapriccianti. Ma monsignor Angelo Dell’Acqua, il dignitario della Segreteria di stato addetto a occuparsi degli ebrei –  che  in ogni circostanza e in ogni suo atto rivela una forte dose di antisemitismo – consiglia regolarmente Pio XII di non prendere quelle informazioni  troppo sul serio perché “si sa, gli ebrei esagerano sempre”. Non solo , ma  suggerisce di non condividere le informazioni ricevute con gli Alleati: la cosa potrebbe sembrare infatti una rottura della neutralità conclamata dalla Santa Sede, come si sa  mantenuta scrupolosamente fino al momento  della sconfitta delle potenze dell’Asse.

 

Veniano anche a sapere che alla fine del 1939 un gruppo di organizzazioni ebraiche americane si era rivolto al Vaticano inviando 125mila dollari da distribuire tramite  i canali cattolici come aiuti ai perseguitati e ai rifugiati in generale, scrivendo che  non si trattava di “un problema di razza o religione, ma di un problema che riguarda tutta l’umanità”. Nella realtà, invece, nella ripartizione dei fondi da parte delle gerarchie vaticane, peserà non poco proprio il pregiudizio antiebraico: la selezione dei soggetti da aiutare tiene conto, infatti, della circostanza  che i rapporti che arrivano sui rifugiati dicono che molti ebrei  sono comunisti, molti si sono battezzati nel 1939, aprendo in tal modo un nuovo motivo di diffidenza verso i convertiti.

 

Simili notizie convincono  il tremendo Dell’Acqua a suggerire che nella destinazione dei fondi sia  meglio preferire gli ariani ai non ariani, anche se convertiti, i quali sono spesso colpevoli, a suo dire,  “di aver fatto più onore alla razza che al cattolicesimo”. In fondo, si giustifica il monsignore, non erano forse state molto vaghe le stesse associazioni americane nel definire la destinazione dei fondi? Non a caso quando dopo la guerra  le associazioni ebraiche chiederanno un rendiconto della distribuzione di quei soldi  il Vaticano avrà dei problemi a rispondere. Non ci dobbiamo stupire: nel settembre del 1938 la Civiltà Cattolica, prestigiosa rivista dei gesuiti, si era ben guardata dal condannare le leggi razziali italiane ma, anzi, aveva lanciato “un appello caloroso e ragionato alla vigilanza e alla difesa, efficace ma pacifica, contro un pericolo e un disordine civile, non meno che religioso e morale, della società moderna minacciata dal giudaismo”.

 

Non ci dobbiamo stupire quindi se, dopo la fine del fascismo il 25 luglio, il gesuita Pietro Tacchi Venturi – con il consenso del Papa – sia andato dal maresciallo Badoglio a chiedere di non cancellare le leggi razziali, ma di conservarle: magari con qualche modifica da definirsi più tardi. Del resto bisogna pensare che l’atteggiamento ambivalente della Chiesa era ampiamente condiviso da gran parte dell’episcopato, come confermano le parole del cardinale francese Alfred Baudrillart, che davanti a tremende razzie di ebrei a Parigi del 1942  deplora quelle violenze ma, ammette, “non è che la questione ebraica, religione, razza, nazione, non esista e non domandi soluzioni. Ma che queste soluzioni siano umane, pur tenendo conto del pericolo che essi rappresentano per ogni popolo”.

 

Nel rifiuto di Pio XII di condannare l’antisemitismo e la distruzione del popolo ebraico sono presenti, infatti, varie anime: quella diplomatica, mirante a mantenere una rigida neutralità e a non prestarsi – sembra quasi un’ossessione – a eventuali strumentalizzazioni,  e poi il timore, varie volte evocato, di “peggiorare la situazione” – ma, come scrive Valbousquet, cosa poteva succedere di peggio? – . Si aggiungeva a tutto ciò una dose indubbiamente non piccola di diffidenza e antipatia verso gli ebrei di cui rimane traccia in tutta la documentazione. Il Papa si limita così a invocare la pace e la fine della persecuzione verso i vinti di ogni tipo, ma non nomina mai gli ebrei, non condanna mai in modo esplicito l’antisemitismo. Perfino dopo la fine della guerra.

 

Il massimo che arriva a dire è che ci sono popoli “tormentati per la loro nazionalità o la loro origine”, perfino destinati “a costrizioni sterminatrici”. Ma la parola ebrei non viene mai pronunciata, perché anzi, scrive il solito dell’Acqua, “bisognerebbe far sapere a questi signori ebrei di parlare un po’ meno e di agire con più prudenza”.  L’unico episcopato cattolico che si pronuncia con forza contro la persecuzione è quello dei Paesi Bassi, che in questa battaglia di difesa degli ebrei collabora con le chiese protestanti locali, pagandone drammatiche conseguenze. Ma ciò accade  perché il paese è sotto il diretto controllo nazista e quindi la Chiesa olandese riesce  ad assumere questa posizione perché l’occupazione ha segnato di fatto l’interruzione dei contatti con la Santa sede e  il nunzio stesso è stato richiamato. Insomma,  non sapendo quali siano le disposizioni di Pio XII gli olandesi fanno da soli, prendendosi ogni responsabilità.

 

Sono tanti i luoghi comuni antigiudaici – la punizione divina per il popolo deicida, per esempio, sempre riesumata – che compaiono in questi documenti, e che spiegano in parte almeno le scelte di Pio XII, anche dopo la fine della guerra e pure dopo che personaggi di rilievo come Maritain, nuovo ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, si sono spesi per spingere il Papa a prendere posizione più nette di condanna dell’antisemitismo.
Il Vaticano si difende dalle accuse di aver mancato di solidarietà con gli ebrei sbandierando le operazioni di salvataggio realizzate a sua insaputa o al massimo tollerate durante il conflitto
. In parte è aiutato in quest’opera di occultamento della realtà  dalle stesse  associazioni ebraiche che cercano, con opportuni ringraziamenti al Papa per l’aiuto prestato, di ottenerne la solidarietà nel tentativo proprio allora in corso di dar vita allo stato di Israele. Cosa che ovviamente non accade: ma intanto Pacelli incassa i ringraziamenti, che sembrano confermare un aiuto che in realtà è stato molto ridotto, e per di più  sostenuto solo in minima parte dalla Santa Sede.
Gli appelli di alcune personalità ebraiche e cristiane per una revisione dell’antigiudaismo non troveranno ascolto fino al pontificato di Giovanni XXIII e la Segreteria di stato resterà sempre contraria a celebrazioni in memoria della Shoah, perché essa vede nelle “persecuzioni antisemite una occasione provvidenziale per riavvicinare gli ebrei alla chiesa e convertirli”. In realtà, per la Chiesa, il popolo deicida continua a essere considerato colpevole e quindi responsabile lui per primo delle sventure che si abbattono su di esso.

 

Con una quantità di documenti veramente impressionante il libro della Valbousquet  in sostanza  impone alla cultura cattolica una revisione del rapporto con il popolo ebraico, cioè con le nostre radici. Un rapporto che deve essere  più approfondito di quello che si è sviluppato dopo la fine del pontificato di Pio XII e in particolare dopo il Concilio. Una revisione tra l’altro che, a parte alcuni eventi pubblici come le visite dei Papi in sinagoga, in questi ultimi anni si è fermata, proprio nel momento in cui alcune forme di antisemitismo si stavano riaffacciando anche nella Chiesa.

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