che farà ora l'Iran?
Israele sa come sorvolare i cieli di Teheran, che nel reagire ha soltanto cattive opzioni
L’attacco di Tsahal ha colpito la contraerea “made in Russia” e il programma missilistico dell'Iran. Il dilemma di Khamenei
Era dal 1980 che Teheran non subiva un attacco come quello con i jet israeliani che il 26 ottobre hanno preso di mira i siti del programma missilistico e le difese aeree “made in Russia” del paese. La Guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei lo ha commentato tenendosi aperte tutte le porte nel caso decidesse di vendicarlo oppure di chiudere qui lo scambio di attacchi. Domenica ha detto: “E’ un evento che va esaminato a mente fredda. Non bisogna né esagerarlo né minimizzarlo”. Una fonte diplomatica a Teheran, che preferisce rimanere anonima, dice al Foglio che il regime è soddisfatto delle condanne del bombardamento israeliano che sono arrivate da tutti i paesi della regione.
Anche se nei comunicati di biasimo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti non compare mai la parola “Israele”. Alla preghiera del venerdì del 4 ottobre, tre giorni dopo il lancio di quasi duecento missili balistici dal territorio iraniano contro quello dello stato ebraico, Khamenei aveva invitato tutta l’umma – la comunità musulmana mondiale e i paesi islamici – a unirsi ed essere “solidali”. Mentre pronunciava quel sermone l’Iran si preparava alla risposta israeliana, e all’ipotesi che fosse più dura di quella che abbiamo visto alla fine della scorsa settimana, che prendesse di mira le raffinerie del paese oppure i suoi leader militari e politici. Ora, secondo la fonte a Teheran, il governo crede che il lavoro diplomatico del ministro degli Esteri Abbas Araghchi – che tra il giorno dell’attacco il primo ottobre e quello della risposta israeliana ha girato tutto il medio oriente, dal Cairo a Riad passando per Amman, per portare messaggi e trattare indirettamente con il nemico – abbia funzionato. E che i danni in Iran, rispetto alle previsioni, se fosse davvero finita qui, siano stati tutto sommato contenuti. Al contempo per Israele aver portato i propri caccia dentro o a ridosso dello spazio aereo iraniano significa aver dimostrato un’altra volta la propria superiorità militare rispetto al suo nemico meglio equipaggiato.
Secondo le Forze armate iraniane, il 26 ottobre gli aerei di Tsahal hanno lanciato i loro missili restando nello spazio aereo iracheno, ma arrivando fino a meno di cento chilometri dal confine con l’Iran. Hanno ucciso quattro soldati dell’esercito regolare (che non è il più potente e famoso esercito paramilitare dei pasdaran) che manovravano la contraerea S300 di fabbricazione russa. Poi sono andati a caccia dei siti dove si producono o si lanciano i missili balistici come quelli che sia il 13 aprile sia il primo ottobre la Repubblica islamica ha usato per attaccare Israele.
Alcune fonti militari israeliane hanno dato una versione diversa della dinamica dell’attacco: hanno detto che per la prima volta nella storia i caccia F-35 dello stato ebraico, dopo aver viaggiato per più di mille chilometri, hanno sorvolato i cieli della capitale dell’Iran – che sarebbe un modo ancora più chiaro di mandare un messaggio minaccioso nel caso la Repubblica islamica decidesse di rispondere ancora una volta all’ultimo attacco. Il presidente americano Joe Biden ha sottolineato che Israele ha colpito soltanto obiettivi militari e ha detto di sperare che questa sia “la fine” dello scambio di bombardamenti, cioè che la guerra più grande in medio oriente sia stata scongiurata.
Non tutti negli apparati militari iraniani però vedono la situazione come i più ottimisti diplomatici del governo di Masoud Pezeshikian, il primo riformista al potere nella Repubblica islamica in vent’anni. Gli analisti fanno notare che aver perso le difese aeree attorno alla capitale rende il paese più vulnerabile a nuovi attacchi. E che rinunciare a rispondere lascerebbe Teheran nella condizione in cui è da almeno sei mesi: esposta, incapace di esercitare deterrenza. Dall’altra parte reagire significherebbe rischiare di accelerare una sconfitta totale.