In difesa delle opinioni

Con la sua spiegazione, Bezos "peggiora le cose". Conversazione con Alastair Campbell

Paola Peduzzi

Bezos giustifica il non endorsement del Washington Post: abbiamo fallito, nessuno si fida più dei media. “Lo slogan del nostro podcast – dice Campbell – che cerchiamo di rispettare è ‘disagree agreeably’, non essere d’accordo in modo gradevole. Non è grandioso come ‘la democrazia muore nell’oscurità’, che dovrebbe essere il faro che guida il Washington Post, ma cerchiamo comunque di rispettarlo". L'endorsement di Musk a Bezos e il pulsante di emergenza

E’ una pillola difficile da inghiottire, scrive Jeff Bezos in un op-ed sul Washington Post, giornale di cui è proprietario, ma la fiducia nei giornalisti e nei media è in crollo costante, secondo Gallup, siamo finiti sotto alla già bassa fiducia che gli americani hanno nel Congresso, è evidente che quel che stiamo facendo non funziona: “Dobbiamo essere accurati e le persone devono credere che siamo accurati”, ma non riusciamo a soddisfare la seconda condizione – necessaria. “We are failing”, scrive Bezos, legando il proprio ruolo a quello dei giornalisti cui paga lo stipendio, ed è per questa mancanza di fiducia degli americani, per questa “dura verità”, che venerdì l’Editorial Board ha annunciato che in questo ciclo elettorale il Washington Post non avrebbe pubblicato l’endorsement a nessun candidato. La decisione non è stata presa bene, ci sono state dimissioni, disdette di abbonamenti (secondo Npr, sarebbero 200 mila: la direttrice dell’edizione americana del Guardian, Betsy Reed, ha inviato subito un’email ai lettori dicendo di destinare al suo giornale i soldi che prima destinavano al Washington Post; in 24 ore ha ottenuto contributi per 1,1 milione di dollari, una cifra enorme) e soprattutto l’accusa a Bezos di aver voluto proteggere i suoi interessi dall’ira che un endorsement a Kamala Harris (l’articolo era già scritto) avrebbe scatenato in Donald Trump.

“La nostra ultima intervista nel podcast ‘Leading’ – dice al Foglio Alastair Campbell, ex spin doctor di Tony Blair, oggi conduttore assieme a Rory Stewart di “The Rest is Politics”, podcast politico di grande successo, di cui “Leading” è uno spin off – è stata con il professor Timothy Snyder, che da tempo mette in guardia il mondo dall’ascesa della tirannia e del fascismo. Uno dei primi segnali di questa ascesa si ha quando anche persone potenti si inchinano di fronte alla tirannia addirittura prima che questa s’instauri. E’ difficile valutare la decisione del Washington Post al di fuori di questo contesto. Il tentativo di Jeff Bezos di dare una spiegazione peggiora le cose, non le migliora, sia per quel che riguarda la sua reputazione sia per quel che dice sui media e sulla democrazia americani”.

L’ultimo numero dell’Economist,  nella sua sezione inglese, ha un articolo dal titolo “Lo spettacolo più assennato della terra”, che racconta il  live tour che Alastair Campbell e Rory Stewart hanno fatto in alcuni palazzetti inglesi nelle prime due settimane di ottobre – un successo (i biglietti partono da 90 sterline). Il format non è nuovo: uno di sinistra e uno di destra (Stewart è stato parlamentare conservatore e si è candidato alla leadership del partito) parlano di politica britannica e internazionale. Il loro posizionamento – potremmo chiamarlo endorsement – è esplicito, ma il loro successo è dato sia dall’“appetito”, come lo chiama l’Economist, per “un approccio meno cinico e meno litigioso” alla politica, sia dall’accuratezza delle informazioni che danno e dei ragionamenti che propongono. In altre parole: “The Rest is Politics” è connotato politicamente, ma c’è un patto di lealtà con il pubblico che lo rende credibile. “Lo slogan del nostro podcast – dice Campbell – che cerchiamo di rispettare è ‘disagree agreeably’, non essere d’accordo in modo gradevole. Non è  grandioso come ‘la democrazia muore nell’oscurità’, che dovrebbe essere il faro che guida il Washington Post, ma cerchiamo comunque di rispettarlo. Non nascondiamo le nostre opinioni ma quando non siamo d’accordo cerchiamo di rispettare le idee diverse”. E’ un invito al dialogo ma anche a mettere in discussione le proprie convinzioni, informando, interpretando, superando i propri pregiudizi. Gran parte della sfiducia nei confronti dei media e dell’informazione nasce dal fatto che il confronto non esiste quasi più, se il New York Times pubblica nelle pagine degli editoriali il commento di un senatore repubblicano, viene chiesta (e ottenuta) la testa del responsabile di quelle pagine, viviamo in bolle informative sempre più frammentate e lontane l’una dall’altra, nelle quali conta quel che il pubblico vuol sentirsi dire e non l’accuratezza di quel che si racconta.

“Abbiamo spesso cercato di capire – continua Campbell – che cosa molte persone trovino di così affascinante in Trump o in qualcuno come Boris Johnson. Dopo che abbiamo intervistato il sondaggista Frank Luntz, ci ho tenuto a sottolineare che aveva ragione quando mi diceva che io detesto così tanto Trump che questo indebolisce la mia capacità di analisi rispetto a chi non lo detesta quanto me. Abbiamo tutti le nostre opinioni e i nostri pregiudizi, ma noi li ammettiamo”. Dall’esplicitazione di queste idee – potremmo chiamarlo endorsement – nasce una maggiore libertà: non si deve fingere di non avere opinioni, quel che si deve evitare è di distorcere i fatti per assecondare queste opinioni. E il confronto con opinioni differenti aiuta, perché permette di verificare quel che si dice, di avere una base comune di informazioni da interpretare. Bezos sostiene che il fallimento dei media sta nell’aver distrutto questa base comune, e che il modo per recuperarla è annullare il posizionamento politico. Campbell ci vede un problema più profondo: “Bezos ed Elon Musk (che si è congratulato con Bezos per il non endorsement) sono la versione moderna di un fenomeno problematico che è sempre stato una questione rilevante nelle democrazie occidentali: uomini molto ricchi e potenti che non si accontentano mai della ricchezza e del potere che hanno e che utilizzano i media come un mezzo per portare avanti le loro visioni politiche e i loro interessi di business. Più sono ricchi e più sono potenti, meno sono adatti a essere proprietari di mezzi di informazione”.

Siamo tornati al conflitto di interessi, che grava sulla decisione del Washington Post ben più della discussione avviata da Bezos nel suo editoriale riguardo alla fiducia nell’informazione. Al fondo forse, più che l’endorsement politico conta la lealtà nei confronti del pubblico: “Sopra ogni cosa – dice Campbell – cerchiamo di non dare per scontato che le nostre opinioni siano le uniche giuste”. Durante lo spettacolo di “The Rest is Politics” dal vivo, quando Stewart pensa che Campbell sia troppo di parte – di parte laburista ovviamente – schiaccia un pulsante d’emergenza, la sala viene illuminata da una luce rossa, suona una sirena e sugli schermi compare una scritta grande: “Tribale”. Poi si riparte.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi