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Alluvioni

Non solo una fatalità. La tragedia di Valencia ci ricorda i ritardi idraulici delle grandi città del Mediterraneo

Giulio Boccaletti

Ciò che è successo in Spagna o in Emilia-Romagna è il sintomo di quello che la ricerca segnala da anni: un riscaldamento maggiore della zona del mediterraneo conduce a precipitazioni e siccità più intense. Occorre usare le nostre competenze scientifiche per cercare di anticipare i rischi, senza attendere che siano i fiumi a decidere da soli 

E’ successo di nuovo. A meno di due settimane dall’alluvione in Emilia e poco più di un mese da quella in Romagna, questa volta è toccato alla Spagna. Quella che ha colpito Valencia, nel sud-est del paese, è stata una dell’alluvione tra le più distruttive degli ultimi anni. Sicuramente in termini di vittime: se ne contano più di sessanta e le operazioni di soccorso continuano mentre stiamo scrivendo queste parole. Si tratta di un evento eccezionale per la Spagna, ma è significativo anche in termini europei. Non raggiunge l’ecatombe delle alluvioni in Germania del 2021, quando morirono 185 persone, ma gli ordini di grandezza non sono distantissimi (anche se i dettagli dell’evento sono diversi). Ovviamente il primo pensiero va alle numerose vittime. Ma dato il momento storico, non possiamo fermarci al cordoglio. Dobbiamo riflettere su ciò che sta accadendo. Per quanto tragico, il fatto che sia successo in Spagna, può forse aiutarci ad essere più lucidi di quanto non siamo quando ad essere colpite sono le nostre comunità. Ci può far apprezzare quanto i dettagli importino in queste circostanze, e che per affrontare ciò che ci attende dobbiamo mobilitare competenze tecniche per aiutare la popolazione e la politica a prendersi la responsabilità di fare scelte difficili.   

 

         


Partiamo dalla natura dei fenomeni climatici che stiamo osservando. Sono mesi che il Mediterraneo è caldo. La superficie del mare è di 3 o 4 gradi più calda della media storica. Questo significa che siamo immersi in un’enorme vasca da bagno che può buttare in aria ben più acqua di quanta non ci sia normalmente in atmosfera.


Perdonatemi se vi tedio con alcuni concetti tecnici ma credo sia importante chiarire la complessità di quanto stiamo osservando. Troppo spesso passa il messaggio che sia ovvio capire cosa succederà o che, siccome la cosa è complessa, non possiamo sapere nulla. Sciocchezze entrambe. Quando si parla di precipitazioni e cambiamento climatico, la relazione di Clausius-Clapeyron, che alcuni di voi ricorderanno dalle lezioni di scienze, ci permette di stimare quanto vapore l’aria può assorbire ad una data temperatura. Per ogni grado in più, l’aria può assorbire il 7 per cento in più di acqua: 3-4 gradi alla superficie del mare potrebbero voler dire 20-30% in più di acqua nell’atmosfera sovrastante. Ma questa è una stima di quanta acqua potrebbe essere assorbita, non di quanta venga effettivamente assorbita.

Quanta acqua finisce in atmosfera dipende dalla forza del vento, dal livello di saturazione dell’aria e dalla sua temperatura, dal bilancio energetico alla superficie, tutti fattori governati da leggi della fisica note, ma che non sono facili da trattare. Quanto vi piove sulla testa, poi, non è determinato solo dall’evaporazione del mare. In questo periodo dell’anno arrivano sull’Europa perturbazioni dall’Atlantico, basse pressioni che portano con sé fronti freddi. Quando il fronte arriva su una regione come quella mediterranea, calda e umida, l’aria satura viene rapidamente raffreddata, e l’acqua condensa e precipita. Ci sono altri fenomeni che contribuiscono, dai filamenti di aria carichi d’acqua, che i sistemi meteorologici trascinano da posti lontani – i cosiddetti “fiumi atmosferici” – agli aerosol che facilitano la condensazione.

Non è mia intenzione annoiarvi con una lezione di meteorologia, ma voglio semplicemente segnalare che la questione è complessa e richiede conoscenze tecniche per capire e prevedere come si comporta l’atmosfera date queste condizioni. Conoscenze tecniche che il sistema scientifico europeo sullo studio del clima, di cui fanno parte i ricercatori italiani e che è tra i più avanzati al mondo, ha. Ciò che è successo in Spagna o in Emilia-Romagna è il sintomo di ciò che questo sistema di ricerca continentale va segnalando da anni: un riscaldamento maggiore della zona del mediterraneo porta statistiche meteoclimatiche diverse, con precipitazioni più erratiche ed intense, e siccità più persistenti. Quando poi l’acqua, per tutte le ragioni che vi ho descritto, precipita fuori dalla colonna d’aria e cade sulla testa delle persone, si dicono tante cose in Italia.

Si parla di fossi e alvei da pulire. Si parla di consumo del suolo, di cementificazione. E’ evidente che gli alvei dei fiumi vanno gestiti. Ma i fiumi non nascono puliti, privi di arbusti o alberi. La natura non ci ha fornito canali, ma ecosistemi dinamici governati da una miriade di processi complessi. Certo, un fiume pieno di arbusti può togliere spazio all’acqua o rallentarne il deflusso. Ma un deflusso accelerato può anche significare un flusso più potente, in grado di scavare il canale del fiume più rapidamente e in maniera pericolosa per persone e infrastrutture. E poi, non c’è dubbio che il nostro paese sia altamente urbanizzato. Un po’ come in Giappone, tendiamo a concentrarci in poche pianure alluvionali, occupando tutto lo spazio a disposizione.

Non c’è dubbio che abbiamo costruito in posti dove, con il senno di poi (e in alcuni casi anche con il senno di allora) non avremmo dovuto costruire. Detto questo, i tragici eventi della Spagna ci ricordano che, a meno che non pensiate che le patologie della nostra gestione locale siano identiche a quelle della Valencia, in effetti qualcosa di regionale sta succedendo e non basta cercare il colpevole. La realtà è che i sistemi idraulici in tutto il bacino del mediterraneo sembrano essere sotto-ingegnerizzati per le statistiche meteoclimatiche che stiamo cominciando ad osservare. C’è tanto da fare. Dobbiamo parlare di ciò che immaginiamo debba essere il territorio dei prossimi trent’anni. Dobbiamo chiederci cosa ci aspettiamo che faccia l’agricoltura. Dobbiamo chiederci quali difese aggiuntive dobbiamo costruire e cosa ci possiamo permettere. Ma se posso permettermi di fare una segnalazione, ispirata dalla tragicità degli eventi spagnoli e dalla memoria recente delle sofferenze dell’Emilia-Romagna, la conversazione urgente – veramente urgente – è capire che in molti bacini italiani, come in Spagna, a fronte di precipitazioni sufficientemente forti e rapide, l’esondazione dei fiumi con le attuali infrastrutture sarà, a volte, inevitabile. In queste situazioni, ci sono solo due possibili risultati: o decidiamo noi dove fare esondare il fiume, o lo decide il fiume.

Fino ad ora lo abbiamo fatto decidere al fiume, con risultati che per molte comunità sono stati catastrofici. Dobbiamo usare ciò che sappiamo del nostro territorio e del sistema climatico regionale per cercare di anticipare i rischi che ci aspettano e prepararci a gestire in maniera dinamica i fiumi. Le alluvioni non ci danno molto tempo per agire, e non possiamo eliminare tutti i rischi, ma se potessimo almeno identificare per tempo chi deve decidere e quali sono le scelte si possono fare nell’emergenza, potremo almeno cercare di ridurre gli impatti, utilizzando il territorio per com’è configurato oggi. Siamo un grande paese con grandi competenze scientifiche. Usiamole.
 

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