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Due casi diversi

L'Olanda vuole copiare il modello Albania sui migranti, ma il piano Uganda non funziona

Francesco Gottardi

Il leader del Partito per la Libertà Geert Wilders vorrebbe seguire l'esempio dell'accordo italiano con Tirana, ma "gli hub ugandesi andrebbero deliberatamente contro l’articolo 3 della direttiva rimpatri dell’Unione europea”, spiega la ricercatrice Laura Cleton

A sentire Geert Wilders, il protocollo Italia-Albania “ha dato l’esempio”, e l’Olanda sovranista rilancia, con un piano per deportare in Uganda i suoi richiedenti asilo respinti. Almeno a parole. Dall’altra parte, c’è lo scetticismo degli addetti ai lavori: “C’è un’infinità di ragioni per cui quest’idea – per fortuna – non si potrà concretizzare. Anzi. E’ talmente provocatoria che forse chi l’ha proposta intendeva soltanto fare clamore”. Laura Cleton è ricercatrice specializzata in governance europea e legittimità dei rimpatri presso l’Erasmus Universiteit di Rotterdam e spiega al Foglio i problemi della stretta migratoria in corso nei Paesi Bassi, tra progetti irrealizzabili e accordi di governo.

 

“Partiamo dall’aspetto macroscopico: gli hub ugandesi andrebbero deliberatamente contro l’articolo 3 della direttiva rimpatri dell’Unione europea”, dice Cleton: “Il caso italiano è molto diverso: prevede la riallocazione di rifugiati in Albania e da qui, se respinti, l’invio al paese d’origine. Secondo la suggestione del Pvv, l’Uganda invece rappresenterebbe la destinazione finale dei richiedenti asilo respinti, di qualunque nazionalità subsahariana, quando invece la normativa comunitaria stabilisce che il ritorno forzato è consentito solo nel paese d’origine o in altro in cui l’individuo abbia legami personali o permessi di soggiorno”. Rim-patrio, appunto. “Il trasferimento in Uganda sarebbe dunque possibile solo su base volontaria: nessuno può essere deportato in un paese terzo senza il proprio consenso”. E la distanza tra Amsterdam e Kampala è 38 volte quella fra Bari e Durazzo. “C’è poi il tema dei diritti umani: il governo olandese definisce l’Uganda uno stato idoneo all’accoglienza, ma sappiamo che non è così. Soprattutto in termini di libertà di espressione e condizioni delle strutture ricettive. Le persone rischiano abusi soltanto per il loro orientamento sessuale”. E ancora, altro grande nodo: “I costi. Questa manovra avrebbe un impatto enorme sulle finanze pubbliche, in un momento in cui le risorse servono ai Paesi Bassi per affrontare l’invecchiamento della popolazione e le politiche climatiche. I precedenti sono tutti sfavorevoli”.

 

L’accordo Italia-Albania richiede 650 milioni di euro. Cifre analoghe per quello tra Regno Unito e Ruanda. Mentre l’Unione europea, per frenare gli sbarchi nel Mediterraneo, paga la Tunisia oltre un miliardo. “Anche l’opinione pubblica spesso non valuta con precisione l’analisi costi-benefici”, continua l’accademica. “La grande domanda è: vale la pena spendere enormità per deportare i richiedenti asilo respinti? Alla mia università stiamo lavorando a un progetto di ricerca su larga scala che invece spinge con chiarezza verso un approccio opposto: se i governi europei non si preoccupano di coinvolgere i paesi di origine nelle procedure di rimpatrio volontario, nel lungo termine non riceveranno più il loro supporto. Senza cooperazione l’effetto è controproducente: non è solo questione di soldi, ma di fiducia e rapporti intergovernativi”. Lo stato dell’arte fra Paesi Bassi e Uganda? “Il nostro ministro degli Esteri aveva detto di averne parlato con il loro, ma è stato smentito. E’ tutta apparenza, tutto fumo negli occhi da parte della destra radicale”. O l’esigenza di una campagna elettorale permanente.

 

Il governo olandese ha approvato un rigido pacchetto di misure anti immigrazione (non senza difficoltà, all’interno di una coalizione tutt’altro che stabile): taglio ai fondi per i rifugiati, controlli rinforzati ai confini, idoneità di paese sicuro alla Siria. “Basti pensare a quest’ultimo punto”, dice Cleton. “Ancora una volta le parole si scontrano con la realtà e le normative Ue. I paesi nella lista devono poggiare su valutazioni oggettive e non su congetture politiche. Ma quello che conta, soprattutto per Wilders, è mandare un segnale agli elettori”. Il leader del Pvv aveva puntato i piedi per dichiarare lo stato di crisi migratoria, ma è stato arginato dagli alleati. “E dal premier Schoof, che pure ha abbassato i toni sulla questione ugandese. Il guaio della politica di Wilders non è quello che fa – cioè poco – ma quello che non riesce a fare: ponendo questi temi antidemocratici fuori dal quadro legale cerca di aggirare la giustizia, fino all’intervento della Corte europea. E lui non vede l’ora di dare la colpa a loro”. Se gli hub in Uganda sono soltanto un’esca, ci stiamo cascando tutti.