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Tra virgolette

Le tre ragioni di un conservatore, Bret Stephens, per non votare Trump

Dalla politicizzazione della giustizia ai continui dazi, fino al forte sostegno verso Erdogan, Kim Jong Un e Putin: ecco un elenco di motivazioni che spinge parte del conservatorismo americano a preferire Kamala Harris come presidente

Voterò per Kamala Harris – scrive Bret Stephens sul New York Times in un articolo intitolato: “A conservative case against Trump” – e anche altri conservatori come me dovrebbero farlo, perché una vittoria di Donald Trump sarebbe peggiore per tutti. “Non perché è fascista – scrive Stephens – Se lo fosse, i suoi oppositori così espliciti finirebbero in prigione e non su Msnbc”. Nemmeno perché “la sua presidenza precedente è stata un fallimento incessante”, visto che prima della pandemia l’economia andava bene, il mondo era più pacifico di quanto lo sia oggi e gli Accordi di Abramo sono stati un successo. “Trump è peggio in modi che impattano significativamente sullo stato di diritto, sulla salute del capitalismo e sul futuro della libertà in casa e nel mondo. I conservatori che dicono di tenerci, a queste cose, dovrebbero anche tenere a quel che Trump potrebbe fare a ognuno di loro, in particolare facendolo in nome del conservatorismo”.

 

Stephens inizia così il suo elenco, partendo dalla legge: i repubblicani sono indignati per la caccia alle streghe giudiziaria che, secondo loro, la sinistra ha scatenato contro l’ex presidente, “ma la politicizzazione della giustizia è esattamente quello che ha cercato di fare Trump durante la sua presidenza”, cercando di coinvolgere il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, bloccando la fusione tra AT&T e Time Warner “quasi certamente a causa del disprezzo” per la Cnn, nominando procuratori generali controversi e facendosi dare consigli legali da cospirazionisti. “Oh, e ha incitato una folla perché ostruisse il trasferimento legale del potere e non ha mai riconosciuto la legittimità delle elezioni del 2020”. L’unica domanda onesta che un conservatore dovrebbe farsi, scrive Stephens, è: come si sentirebbe se queste cose le avesse fatte un democratico? 

   

Secondo punto: il capitalismo. I conservatori dovrebbero essere contro le spese eccessive dello stato, contro le tasse più alte – “ma dazio, la parola preferita di Trump, dice lui, è un altro termine per dire tassa” – e contro l’inflazione, “ma la passione di Trump per le grandi spese e gli interessi bassi è per sua natura inflazionistica”. I conservatori dovrebbero anche essere contrari ai regolamenti, ma come ha scritto il Financial Times, “Trump ha aggiunto tremila regolamenti l’anno, come i suoi predecessori fino a Bill Clinton”. 

   

Terzo punto: la libertà. “Trump era e rimane un sicofante di Putin – e del cinese Xi Jinping, del nordcoreano Kim Jong Un, del turco Recep Tayyip Erdogan, dell’ungherese Viktor Orbán: quale presidente può guidare il mondo libero quando è costantemente tanto espansivo con i suoi nemici?”. Gli amici trumpiani di Stephens gli dicono che sì, togliere gli aiuti all’Ucraina sarebbe una vittoria per Putin, ma che questa è controbilanciata da un sostegno molto più solido a Israele. Ma, replica l’editorialista, “il medio oriente e l’Ucraina sono, al fondo, fronti diversi della stessa guerra. Se permetti a Putin di vincere in Ucraina, le minacce a Israele dagli alleati della Russia in Iran, Siria e Yemen si moltiplicheranno”. 

   

Come molti altri conservatori “infelici”, conclude Stephens, “questa elezione è una scelta tra diverse sventure. Di fronte allo stesso dilemma nel 1800, Alexander Hamilton diede un consiglio che dovrebbe risuonare almeno tra qualche elettore di destra: ‘Se dobbiamo avere un nemico a capo dello stato – scrisse nel maggio di quell’anno allo speaker del Congresso Theodore Sedgwick, un federalista – facciamo sì che sia uno al quale possiamo opporci e per il quale non siamo responsabili, che non coinvolgerà il nostro partito nella disgrazia delle sue misure folli e cattive”.