Thom Yorke (LaPresse)

L'editoriale del direttore

La gran lezione di Thom Yorke dei Radiohead contro i pregiudizi anti israeliani 

Claudio Cerasa

A Melbourne, in nome dell’intolleranza contro gli intolleranti, il cantautore ha mandato a quel paese un manifestante pro Pal che aveva iniziato a fischiare le sue canzoni. Viva i nemici dei troll anti Israele

Thom Yorke probabilmente sapete tutti chi è. E’ un cantautore, è un compositore, è una star internazionale e dal 1992 guida una delle band musicali più famose del mondo: i Radiohead. Da qualche anno a questa parte, Thom Yorke ha cominciato a far notizia non solo per i suoi tour in giro per il globo terracqueo (cit.) ma anche per una giusta causa che ha scelto di difendere con costanza e con coraggio andando a sfidare a muso duro il partito unico dell’indignazione anti israeliana. L’ultima occasione, non la più clamorosa ma forse la più iconica, si è manifestata due giorni fa, quando Thom Yorke, da un palco di Melbourne, in Australia, durante un concerto, ha messo in pratica un famoso e illuminante insegnamento popperiano, nel senso di Karl Popper, filosofo ed epistemologo austriaco vissuto nel Novecento.

Nel 1945, Popper enunciò il famoso “paradosso della tolleranza”, secondo cui la presenza di una collettività caratterizzata da tolleranza indiscriminata avrebbe creato le condizioni per essere dominata interamente dalle frange intolleranti presenti al suo interno. E sulla base di quel principio, arrivò a sostenere che l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza fosse condizione necessaria per la preservazione della natura tollerante di una società aperta. Non conosciamo il grado di conoscenza della teoria popperiana da parte di Yorke ma possiamo sospettare che Popper sarebbe stato particolarmente orgoglioso del suo inaspettato allievo se lo avesse visto all’opera due giorni fa a Melbourne, quando il principale volto dei Radiohead, in nome dell’intolleranza contro gli intolleranti, ha mandato a quel paese un manifestante pro Pal che aveva iniziato a fischiare le sue canzoni, citando numeri, forse quelli delle vittime del conflitto tra Israele e Hamas, e cercando modi diversi per farsi notare dal pubblico. Yorke, in un primo momento, lo ha invitato a rovinare a tutti la festa salendo direttamente sul palco, facendosi guardare in faccia (“Sali su questo fottuto palco e di’ quello che vuoi dire”).

(“Non stare lì come un codardo, vieni qui e dillo”, ha detto, ricevendo applausi dai suoi fan). Poi ha eroicamente mandato tutti a quel paese, allontanandosi dal palco e tornando solo molti minuti dopo per congedarsi con un’ultima canzone, “Karma Police” (testo diabolico: “Karma Police arrest this man / he talks in maths / he buzzes like a fridge / he’s like a detuned radio / Karma Police, arrest this girl / her hitler hairdo / is making me feel ill / and we have crashed her party”). Il pubblico di Melbourne avrà probabilmente sofferto per la scelta di Yorke. Ma nel preciso istante in cui il numero uno dei Radiohead ha mandato a quel paese il troll anti Israele c’è stato un altro pubblico deliziato dalla musica di Yorke ed è quel pubblico che in giro per il mondo chiede ormai da un anno di non cancellare il 7 ottobre, di non demonizzare Israele, di resistere alle pulsioni antisemite e di ricordarsi che per quanto si possa odiare Netanyahu non si può negare che combattere il terrorismo islamista sia il modo più efficace di avere in medio oriente una pace duratura.

Non è la prima volta che i Radiohead si ritrovano a dover discutere a distanza più o meno ravvicinata con i loro fan per via delle posizioni su Israele. Nel 2017, sfidando un appello al boicottaggio lanciato dal movimento Bds, sostenuto anche da alcune star del pensiero pigro come Ken Loach e Roger Waters, i Radiohead si sono esibiti a Tel Aviv. A Tel Aviv, poi, nel maggio del 2024 è tornato Jonny Greenwood, l’altro volto simbolo del gruppo musicale, sposato con Sharona Katan, artista israeliana, ebrea araba, la cui famiglia ha perso nel conflitto con Hamas un nipote impegnato nell’esercito israeliano, e anche in questa occasione ha sfidato il movimento Bds non solo scegliendo di suonare in Israele ma facendolo con un artista israeliano, Dudu Tassa, con cui ha inciso l’album “Jarak Qaribak”. “Mettere a tacere gli artisti israeliani perché sono nati ebrei in Israele non sembra un modo per raggiungere un’intesa tra le due parti di un conflitto apparentemente senza fine”. Viva  Yorke. Viva Greenwood. Viva i Radiohead. Viva i nemici dei troll anti Israele, musica per le orecchie di chi sogna la preservazione della natura tollerante di una società aperta.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.