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Perché la campagna elettorale americana è così dark. Intervista a Dana Milbank

Giulio Silvano

A pochi giorni dal voto i toni si fanno sempre più alti per entrambi gli schieramenti. Per la giornalista del Washington Post queste elezioni mettono a rischio la democrazia, in un lento serpeggiare verso l'autoritarismo che coinvolge il mondo intero

Martedì la vicepresidente e candidata democratica Kamala Harris ha parlato all’America nello stesso punto, a Capitol Hill, dove Donald J. Trump aveva tenuto il suo discorso il 6 gennaio del 2021 – poi la folla si diresse verso il palazzo del Congresso e lo assaltò. Una scelta simbolica per quelle che sono state chiamate “le argomentazioni finali” di Harris in una campagna elettorale combattuta, schiava di sondaggi che danno i due candidati vicinissimi. Harris ha detto che Trump è un “gretto tiranno”, un uomo “instabile” “ossessionato dalla vendetta”. Qualche giorno prima Harris aveva detto: “Sì, Trump è fascista”. E’ questa una strategia vincente? Lo chiediamo a Dana Milbank, giornalista del Washington Post, autore di vari libri sulle evoluzioni della politica americana (l’ultimo è Fools on the Hill, sul caos e la disfunzionalità dei repubblicani alla Camera). “Non so se questa strategia aiuti o no Kamala Harris, ma è sicuramente accurato chiamare Trump fascista. Già nel 2015 lo avevo definito il Mussolini d’America”

 

                        


La campagna democratica sembra esser passata dal “siamo il partito della gioia e delle risate” a un apocalittico messaggio terrorizzante sullo stato della democrazia. “Non so se la cosa è così binaria”, dice Milbank al Foglio, “ma è vero che entrambe le campagne hanno preso una tonalità dark nelle ultime settimane. Pensiamo al comizio di Trump al Madison Square Garden dove Porto Rico – territorio americano – è stato chiamato un’isola di spazzatura galleggiante, ma sento anche un mix degli stessi temi nei discorsi di Harris”. Ad esempio, Joe Biden – che Harris cerca di tenere alla larga dal palco – ha quasi paragonato i sostenitori di Trump alla spazzatura in risposta alla “battuta” su Puerto Rico. Toni sempre più alti a pochi giorni dal voto, dove i repubblicani trumpiani sono ormai maestri dell’insulto.


Nel suo libro The Destructionists Milbank parlava di un partito, quello repubblicano, che per gli ultimi venticinque anni ha “fatto saltare le fondamenta della democrazia e della società civile” e ci si chiede se una sconfitta di Trump potrebbe far tornare il partito alla sua anima conservatrice senza alt-right e populismo violento e misticismi firmati Steve Bannon, riparando i danni dell’ultimo quarto di secolo. “Sfortunatamente”, ci dice il giornalista, “non penso che il Partito repubblicano cambierà molto se Trump perde. La mentalità Make America Great Again – protezionismo, antielitismo, nativismo, antimmigrazione, etc. – ha preso il controllo del partito. E non anticipo nemmeno un rebranding dei repubblicani. Non so se Trump sia la ‘frontiera finale’ di questo processo o se le cose possono ancora peggiorare. Ormai ho rinunciato a fare previsioni”. Ma, dovesse vincere Trump, cosa succederà a tutti quei repubblicani che oggi, come Liz Cheney, stanno facendo campagna per i progressisti? “L’idea di un terzo partito non ha mai avuto molto successo negli Stati Uniti, quindi dubito che questi si facciano il loro. Alcuni si uniranno ai democratici. Altri resteranno dei ‘Never Trump’ per sempre, ma resteranno essenzialmente senza partito”.

E se Trump dovesse perdere, ci si chiede invece cosa succederà a tutti quelli che sono saliti sul suo carrozzone e che inizialmente lo criticavano. “Gente come il senatore Ted Cruz o gente come la deputata Marjorie Taylor Greene e altri continueranno a competere tra loro per essere la persona più Maga della situazione, anche se Trump esce pian piano di scena”, dice Milbank. Molti pensano che Trump, come  ha fatto nel 2020, a fatica accetterà la vittoria dei democratici. Lui stesso dice: “Se perdo è perché loro hanno rubato”. Ma “Trump sicuramente non accetterà un’eventuale sconfitta”, aggiunge il giornalista del WaPo. “La differenza oggi rispetto a quattro anni fa è che non ha più il controllo dei militari e del resto del governo federale. Ma non escluderei la possibilità di violenze”. I democratici e vari commentatori sostengono che la democrazia è a rischio a queste elezioni. “Sì”, dice, “ma non è che smetteremo di essere una democrazia il 6 novembre se Trump vince. Qui stiamo parlando di un lento serpeggiare verso l’autoritarismo. Sta succedendo in tutto il mondo, anche in Europa”. 


Questa settimana, con la storia del mancato endorsement presidenziale del Washington Post, Milbank ha scritto un articolo in cui spiega che resterà al giornale a differenza di alcuni colleghi, anche perché il proprietario Jeff Bezos non ha mai interferito con il lavoro dei giornalisti da quando ha comprato il Post nel 2013 (nel frattempo il giornale ha perso 250 mila abbonati). Ma, dice Milbank, i media non hanno fatto un ottimo lavoro in queste elezioni, anzi, “pessimo. E non parlo solo del flusso costante di disinformazione che arrivava dall’ecosistema della Fox, che comunque informa una gran parte del paese”. Queste più che mai sembrano le elezioni della post verità. “In generale penso che Trump sia stato molto bravo a convincere circa il 40 per cento degli americani a non fidarsi della stampa e dei media. E questo lo aiuta, perché mentre condivide continuamente falsità i suoi sostenitori non vedono alcuna resistenza dall’altra parte”. Dove conviene andare la sera delle elezioni? “In un bar, a bere moltissimo”.