Donald Trump (foto LaPresse)

A Gerusalemme Trump va forte per almeno tre ragioni. Il voto degli ebrei in America

Fiammetta Martegani

In Israele il candidato repubblicano “senza freni” è meglio della cautela di Harris. Soprattutto perché il sostegno nei confronti del Partito democratico sembrerebbe evaporato, soprattutto per via dei freni posti a Israele da parte della Casa Bianca

Tel Aviv. “Stando alle loro dichiarazioni, i due candidati in corsa alla Casa Bianca hanno promesso un indiscusso sostegno a Israele, il ritorno a casa degli ostaggi e il raggiungimento di un accordo che porterebbe a una conclusione del conflitto”, dice Helit Barel, ex funzionaria del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, esperta di relazioni America-Israele: “La differenza più rilevante tra le promesse dei due leader sta nei modi"

 

I modi di Trump sono “decisamente più determinati”, dice Barel, mentre Kamala Harris “sembrerebbe porsi in maniera più cauta, specie per quanto riguarda la gestione della questione umanitaria a Gaza”. L’escalation del conflitto in medio oriente potrebbe avere alcune conseguenze sul voto negli Stati Uniti. Secondo il sondaggio pubblicato questa settimana dal canale israeliano Keshet 12, la grande maggioranza degli israeliani – inclusi coloro che appartengono al blocco “anti Netanyahu” e che storicamente si sono sempre dichiarati simpatizzanti del Partito democratico – nelle prossime elezioni presidenziali americane favorirebbe in modo preponderante il leader del Partito repubblicano rispetto alla candidata dei democratici: il 66 per cento preferisce l’ex presidente, il 17 l’attuale vicepresidente, il restante 17 non sa. Secondo questa stessa rilevazione, l’attuale presidente Joe Biden era il favorito dall’opinione pubblica israeliana lo scorso anno, a ridosso del 7 ottobre 2023, quando aveva immediatamente offerto il suo pieno appoggio a Israele dopo il massacro di Hamas. Tuttavia, a distanza di oltre un anno, con il conflitto ancora in corso e su più larga scala, il sostegno nei confronti del Partito democratico sembrerebbe evaporato, soprattutto per via dei freni posti a Israele da parte della Casa Bianca.

   

Durante il suo mandato presidenziale, Trump aveva promosso una serie di iniziative filoisraeliane, tra cui lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, il riconoscimento dell’annessione delle Alture del Golan da parte di Israele e l’assunzione di una posizione esplicitamente dura contro la Repubblica islamica dell’Iran. Per questo, in un paese che in questo momento si trova attaccato su sette fronti – Gaza, Libano, Siria, Iraq, Iran, Yemen e Cisgiordania – risulterebbe cruciale un interlocutore che – come Trump aveva già cominciato nel suo scorso mandato promuovendo gli Accordi di Abramo – possa rinforzare le alleanze tra Israele e i paesi arabi sunniti, in modo da ostacolare il cosiddetto “Asse della resistenza”, costituito dagli alleati dell’Iran sciita. Come ricorda Shmuel Rosner, senior analist presso il Jewish People Policy Institute, considerato uno dei maggiori esperti nei rapporti tra l’America e Israele, l’ex presidente ha già dimostrato, oltre alla sua determinazione, anche la totale assenza di freni rispetto all’opinione pubblica internazionale, che invece potrebbe essere uno dei fattori predominanti nel rallentare Harris in una risoluzione più spedita del conflitto. Inoltre, aggiunge Nadav Eyal, vincitore del Sokolov Award, l’equivalente israeliano del premio Pulitzer israeliano, specializzato in politica internazionale,  la vittoria di Trump, visti i suoi stretti legami con il premier Benjamin Netanyahu, potrebbe paradossalmente imporre al primo ministro condizioni che questi non potrebbe permettersi di rifiutare, come finora è accaduto con l’attuale leader del Partito democratico, permettendo, dunque, di accelerare le negoziazioni e la risoluzione della guerra.

 

Secondo Yaakov Katz, esperto militare ed ex capo redattore del Jerusalem Post, c’è un altro fattore che spingerebbe gli israeliani a sostenere il candidato repubblicano: la crescente mancanza di empatia da parte dell’elettorato democratico che nel corso di questo conflitto non si è schierato in modo esplicito, quanto quello repubblicano, nei confronti di Israele. Infine, la priorità della sicurezza sembrerebbe risultare cruciale non solo tra gli israeliani ma anche per l’elettorato americano di origine ebraica che – a causa della crescente ondata di antisemitismo scatenatasi parallelamente all’escalation in medio oriente – oggi si sente fortemente minacciato, a partire dai campus universitari che nell’ultimo anno hanno ostracizzato studenti e docenti di origine ebraiche. In questa corsa elettorale, potrebbero essere numerosi gli ebrei americani che, pur avendo storicamente sostenuto il Partito democratico, per la prima volta sposteranno il proprio voto verso quello repubblicano.

Di più su questi argomenti: