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L'americano ignoto. Cosa sappiamo oggi degli States?
Per anni gli Usa sono stati per noi dollari, jeans e Coca-Cola. E ora? Gli americani sono meno fiduciosi nelle loro istituzioni e nella realizzabilità del loro sogno. Tutte le incognite che pesano sulla nostra comprensione
Che cosa sappiamo degli americani oggi, alla vigilia del voto per il prossimo presidente? Cosa sappiamo noi italiani dell’America che per ottant’anni ha impregnato la nostra vita? Generazione dopo generazione, abbiamo vissuto tante Americhe, abbiamo visto tanti americani; Americhe e americani diversi nei miti, nei riti, nelle immagini proiettate dal cinema. Tutto è diverso, tutto cambia, ma la girandola del tempo ruota ancora attorno a un triangolo magico: il dollaro, i jeans, la Coca-Cola. Nonostante i patetici tentativi di ridimensionarlo (ultimo quello di Vladimir Putin) il biglietto verde regna sui cinque continenti e il passaporto americano è il documento d’identità più ambito. I jeans li fanno anche in Cina, ma la Levi’s li produce solo negli States, cotone e manifattura a stelle e strisce, rigorosamente ecologici. Di Coca-Cola ce n’è una per ogni paese, Russia compresa, però la formula resta il più segreto dei segreti. Certo, il complesso militar-industriale, lo spazio (la bandiera a stelle e strisce piantata sulla Luna, o no?), la bomba, internet, l’intelligenza artificiale. Tuttavia, lo stesso trittico che ha attraversato le nostre vite segna ancor oggi noi e gli americani, questi sconosciuti.
Dollaro, jeans e Coca-Cola sbarcano in Sicilia e non se ne vanno più. Lo zio Sam porta il pane e il companatico, le Am-lire e la borsa nera. La penna caustica di Curzio Malaparte descrive gli americani nel loro doppio volto: occupanti e salvatori. Per farli digerire, accoppiando l’astuzia e la forza, c’è voluto un austro-italiano come Alcide De Gasperi del quale gli alleati non si fidavano fino in fondo.
Non piacque all’amministrazione Truman l’austerità di Luigi Einaudi, ma aveva torto, la cura da cavallo servì tanto quanto il piano Marshall. Ci sono voluti anni perché l’America diventasse un mito per la generazione che la guerra l’aveva vissuta, subita, ma non l’aveva combattuta. Il partigiano Johnny guardava all’Inghilterra di Churchill, i garibaldini al compagno Stalin e all’Unione sovietica. I giovani degli anni 50 si dividevano tra John Wayne e Marlon Brando, Rita Hayworth e Grace Kelly, Frank Sinatra e Louis Armstrong, Hemingway e Fitzgerald. “Americana”, la raccolta di Elio Vittorini ristampata da Bompiani, faceva scoprire alla nuova generazione la letteratura a stelle e strisce. Con “Un americano a Roma” Steno (alias Stefano Vanzina) prende in giro quei bamboccioni specchio di un paese che voltava pagina, non carattere. Ma in quanti si sono rispecchiati in Nando Mericoni, e non solo allora. La guerra in Corea si svolgeva in terre lontane, il maccartismo interessava solo i comunisti, in Italia c’era da lavorare e gli italiani lavoravano sodo. Il miracolo economico è roba loro. Gianni Agnelli non era ancora l’Avvocato e se la spassava, faceva tutto Vittorio Valletta, il quale aveva salvato la Fiat (destinata alla rottamazione se fosse stato per gli inglesi) grazie ai buoni rapporti con gli americani e all’appoggio di Palmiro Togliatti alla faccia dei consigli di gestione.
Il cinema, non il libro, è stata la guida per tutti quelli come me; i “film di cowboy” così venivano chiamati, finivano per esaurimento degli interpreti e celebravano l’epopea di un selvaggio West che secondo gli storici non era poi tanto selvaggio, sgonfiando i nostri miti e rubando i nostri sogni. Poi c’erano i ragazzi più grandi e opulenti, quelli alla moda che giravano con i mocassini e i calzini bianchi in bella vista sotto i blue jeans Levi’s. “Tu vuo’ fa’ l’americano / whisky and soda e rock’n’roll”, cantava Carosone. A quel punto guardare all’America era già diventato un rito collettivo. I baby boomers, i nati con la Nato, ballavano con Elvis Presley e dal jazz dei loro padri al rock’n’roll non c’era soluzione di continuità. Per anni hanno parteggiato per James Dean e Paul Newman, Marilyn Monroe e Audrey Hepburn, finché il loro guru non è diventato Jerome David Salinger, il loro modello il giovane Holden, mentre i pantaloni e le camicie a scacchi sbarcavano a Napoli con i marinai della Sesta flotta. Un’America nuova e malmostosa si affacciava sugli anni 60.
Favolosi quegli anni? Non sono stati un’età dell’oro, la retorica di chi non li ha vissuti non dice il vero. La crisi dei missili nel 1962 ha fatto davvero tremare e la Guerra fredda stava per diventare nucleare. “Ich bin ein Berliner”, sono un berlinese, proclamava John Kennedy il 26 giugno 1963 nella città divisa dal muro. Nessuno in Italia ha detto siamo tutti americani, ma i comunisti hanno dovuto cercare nuovi argomenti per mettere sott’accusa il nemico capitalista. Nasce così il mito dell’Altra America, quella che critica se stessa, quella dei diritti civili e del gran rifiuto, di Martin Luther King e di Jfk, miti anch’essi inossidabili, non sono bastate intere librerie per smontarli. E vai con Bob Dylan e Patti Smith, Frank Zappa e Janis Joplin, Paul Simon e Joan Baez. Nemmeno gli anni di piombo li oscurano, per loro “yankee go home” non vale. Il cinema, la musica, la letteratura cambiano genere, rock duro, pop, figli dei fiori, “Un uomo da marciapiede” e “Easy rider”, Jack Nicholson, Robert Redford, Barbra Streisand, Jane Fonda. Non solo Paperoni, non solo rozzi mandriani o coltivatori di granturco, ci sono gli altri, quelli che rifiutano il sogno americano diventato un incubo.
La guerra in Vietnam, partita in sordina, nel 1965 è ormai una vera escalation e l’invincibile America s’impaluda nel delta del Mekong. Comincia la retorica sul piccolo popolo che sconfigge il Golia a stelle e strisce, mentre Ho Chi Minh diventava lo zio Ho, alla Columbia University bruciano le cartoline precetto, gli hippy si tuffano in deliri psichedelici, i Mamas and Papas cantano “California Dreaming”, John Lennon si fa crescere una barba da guru, Andy Warhol dipinge le fotografie.
Dall’Indocina gli yankee tornano a casa e combinano altri pasticci. A ferragosto del 1971 Richard Nixon, detto Tricky Dick, decide che da quel momento il dollaro non viene più cambiato in oro con il tasso fisso stabilito nel 1944 dagli accordi di Bretton Woods: crolla così l’ancora del sistema monetario mondiale. Il dominio del dollaro finisce? Se lo chiedono tutti, non solo a sinistra. Se lo chiede la Banca d’Italia guidata allora da Guido Carli che compra oro per proteggersi. Se lo chiedono le imprese che non sanno più con quale valuta commerciare. Me lo sono chiesto anch’io che, in partenza per Londra, dovevo girare tra i cambiavalute del vecchio ghetto a Roma per acquistare sterline e liberarmi dei dollari che avevo incautamente comprato in banca una settimana prima. Macché, sembra tornata l’atmosfera del Dopoguerra. Anche allora mancavano i dollari, pochi lo ricordano, ma il piano Marshall e il sistema di Bretton Woods non ce la facevano a finanziare l’enorme fame dell’Europa, fame di derrate alimentari in primo luogo, ma fame di tutto. E non c’erano abbastanza biglietti verdi. La banca centrale doveva stamparne sempre di più e le banche dovevano concedere prestiti senza guardare troppo per il sottile. Non sapevano che pesci pigliare nemmeno i compratori di dollari che in Sicilia facevano incetta di “bucks” portati dai molti zii d’America, per lucrare sul cambio. Ebbene, passata la bufera la valuta americana è tornata più forte che mai.
Dal 1949 al 1972 ci volevano 625 lire per un dollaro, nel 1985 sfiora le duemila lire mentre Bettino Craxi sogna la lira pesante. Impera l’edonismo reaganiano con John Travolta e Sylvester Stallone, Brooke Shields e Meg Ryan, Cher e Jennifer Beals. “Flashdance” e “La febbre del sabato sera” sono, insieme a “Rambo” e “Rocky”, i veri manifesti dell’epoca. In quello stesso 1985 gli italiani si scoprono anti americani. A Sigonella il governo rifiuta di consegnare ai marines Abu Abbas, il capo del Fronte popolare di liberazione della Palestina che aveva sequestrato e dirottato la nave da crociera Achille Lauro, uccidendo Leon Klinghoffer, cittadino americano parzialmente abile. Un gesto di orgoglio e difesa della sovranità nazionale, si dice, toccava all’Italia processare il terrorista. Finisce che Abu Abbas scappa (o viene lasciato scappare) in Jugoslavia. La sinistra celebra il coraggio di Craxi il quale, pure, aveva stretto fin dall’inizio un buon rapporto con Ronald Reagan. Anche i comunisti, pur detestando il capo del Psi, si uniscono al coro. Quarant’anni dopo sarebbe ora di dire che è stato un altro deprecabile esempio di doppiezza. A lungo la classe politica al governo ha avuto, lei per prima, un’idea del tutto strumentale dell’America. Le conveniva essere “atlantista”, stare con lo zio Sam era il modo migliore per stare al potere. Fino al 1992 quando è chiaro a tutti che da Washington non sarebbe arrivato nessun sostegno a un sistema politico che si sgretolava prima di crollare del tutto. Lo dice senza giri di frase l’allora ambasciatore americano Reginald Bartholomew in un incontro-dibattito nelle sale del Corriere della Sera.
L’impero americano scioglie dai lacci le sue colonie? Ma c’è mai stato un impero americano? La dottrina della “porta aperta”, dell’America al mondo e del mondo all’America, enunciata nel 1899, era diventata un dogma. Adesso la porta si chiude. “Dopo la fine dell’Urss la nostra politica estera è come una ciambella: al centro ha un buco”, ammetteva Richard Holbrooke, grande diplomatico di stampo Democrat. Non tira più nemmeno la dottrina Wolfowitz, quella dello sceriffo solitario che esporta la democrazia, come “Il cavaliere pallido”, l’avventuriero interpretato da Clint Eastwood il quale, travestito da predicatore, raddrizza i torti e se ne va. Allora, a quale America guardiamo oggi che l’America si sente vulnerabile (l’11 settembre 2001 è uno choc ancora non superato), sotto assedio (Cina, Russia, Iran, un terzetto micidiale) e invasa da “popolazioni aliene e maligne”?
Nella campagna elettorale l’immigrazione è diventata una questione decisiva. Si può imputarlo all’abilità tribunizia di Donald Trump e alle incertezze di Kamala Harris, ma l’onda dell’opinione pubblica è ben più alta e di lunga durata. E’ stato il giornalista e politologo americano Walter Lippmann nel suo libro del 1922 a rendere popolare la categoria di opinione pubblica che non è solo frutto di manipolazioni esterne, è figlia delle immagini elaborate nelle nostre teste, che ci condizionano nei rapporti con l’esterno e impongono di raccontare un mondo complicato con un piccolo vocabolario. E’ a quel punto che entrano in campo i mass media e i “persuasori occulti”.
I 331 milioni di abitanti censiti nel 2020 continuano ad aumentare grazie soprattutto all’immigrazione. Si contano oltre 30 discendenze etniche. I bianchi arriveranno presto a meno della metà, gli ispanici un quarto, gli asiatici un quinto sorpassando gli afroamericani. L’America Wasp, White anglosaxon protestant, è finita da tempo. Sono oltre 37 milioni le persone nate all’estero e circa 15 milioni di loro sono ormai naturalizzate statunitensi. Dal 2021 al 2026 sono entrati circa un milione e 700 mila immigrati l’anno, anche se il flusso sta rallentando. Secondo uno studio dell’ufficio bilancio del Congresso è grazie a loro che gli Stati Uniti sono cresciuti più delle attese. Il contributo di questa nuova forza lavoro alle finanze pubbliche è stato positivo, le entrate fiscali hanno superato le spese per l’assistenza. E allora di che cosa si lamenta Trump? Se tutto fosse basato sul calcolo razionale, dovrebbe darsi una calmata, ma lui dei fatti non s’interessa, lui dà voce ad ansie, convinzioni, distorsioni che nascono dai mutamenti profondi della società. Increduli ci chiediamo come sia possibile che metà degli americani si riconoscano nelle parole d’ordine e nei messaggi dei suprematisti bianchi. In realtà a chiedere un giro di vite contro i nuovi immigrati sono i vecchi immigrati che temono di perdere il privilegio del passaporto ottenuto con sudore, fatiche e lutti. Per questo molti di loro sperano in Trump.
Joe Biden ha cambiato il paese e lo ha reso più solido e più ricco, ha creato più posti di lavoro di chiunque altro almeno dagli anni 90 in poi, ma come mai non gli viene riconosciuto? s’interroga il New Yorker, settimanale liberal chic, ma non dottrinario. La sua risposta è razionale: perché ha messo in moto cambiamenti di lungo periodo e nel lungo periodo siamo tutti morti, come sentenziava John Maynard Keynes. Si vota guardando al presente e il Maga (Make America Great Again) è uno slogan a effetto, una promessa che attrae. Se è una illusione o no lo vedremo, intanto nelle urne conta quel che accade qui e ora. Cosa deciderà l’americano a noi ignoto non è dato saperlo.
Molti si sono chiesti perché nessuno dei fantastici scrittori nati e cresciuti negli States ha partorito il “grande romanzo americano”. Ci sono andati vicino Scott Fitzgerald con “Il Grande Gatsby” e Philip Roth con “Pastorale americana”, ci avevano provato John Dos Passos, Theodore Dreiser, John Steinbeck. Forse è impossibile proprio perché di America non ce n’è una sola: è la sua forza e la sua dannazione. L’idea che tutta questa varietà alla fine si raggruppi in due mondi contrapposti, molto popolare in Italia e in gran parte d’Europa, si è fatta strada anche negli States. Ha scritto Condoleezza Rice, tornata all’università di Stanford dopo l’esperienza al fianco di George W. Bush: “Gli Stati Uniti sono un paese ben diverso oggi, esausto dopo otto decenni di leadership internazionale, alcuni di successo e ampiamente apprezzati, altri considerati un fallimento. Gli americani sono meno fiduciosi nelle loro istituzioni e nella realizzabilità del sogno americano. La loro mente da un lato guarda al mondo e pensa che gli Usa hanno fatto abbastanza, adesso è arrivato il turno di qualcun altro. Dall’altro guarda fuori e vede un grande paese che prova a cancellare uno più piccolo, bambini avvelenati dai gas nervini o gruppi terroristici che decapitano i giornalisti e dice: dobbiamo agire. Il prossimo presidente dovrebbe fare appello a quest’ultimo lato del cervello”. E noi con lui.