l'editoriale dell'elefantino
C'è speranza in America se anche i conservatori vanno contro Trump
Per imporsi con il suo ego dilagante e assoluto, l'ex presidente deve fare terra bruciata dei conservatori. Molti di loro hanno capito che votare per Harris vuol dire salvare il salvabile di uno stile e di idee che per tornare a contare devono sbarazzarsi dell’equivoco mondo MAGA
Trump incita a sparare su Liz Cheney. Lei è la figlia di Dick Cheney, il vice di George W. Bush, ultima presidenza dei conservatori e repubblicani americani (Trump non è conservatore né repubblicano: è Trump, il capo di una rivolta di massa contro la democrazia americana). Liz è espressione di una minoranza politica perdente, per il metro di misura del candidato che può battere Kamala Harris a colpi di testosterone e di razzismo questa donna minuta e tenace non varrebbe il costo della pallottola, anche metaforica, a lei destinata. Una perdita di energia e di tempo. Eppure la campagna dei Cheney per Harris segnala l’altro vero contenuto politico della battaglia in corso negli Stati Uniti. Trump contro i progressisti o liberal, contro la coalizione delle minoranze identitarie e l’ideologia correttista, d’accordo, ovvio. Poi c’è Trump contro i conservatori.
I conservatori americani sono quelli che hanno il senso dello stato e della nazione, che vedono il loro paese come il centro di un equilibrio mondiale fondato sull’opposizione della democrazia occidentale alle autocrazie e al ribollire confuso e minaccioso del sud del mondo, sono il partito delle grandi alleanze imperniate sull’atlantismo e sull’asse con l’Europa, sono gli ultimi che hanno tentato, prima con Reagan e poi nella versione neoconservatrice, un esperimento di ordine mondiale fondato sull’imperialismo democratico, sono la storia e la forza delle vecchie istituzioni, sono un soggetto al tempo stesso classico e modernizzatore ancorato ai mercati, al libero commercio internazionale, alla salute fiscale del bilancio. Per svuotare di senso la democrazia americana e sostituirla con l’ego dilagante e assoluto di un autocrate bizzarro, patologico, raccordato alle idiosincrasie del populismo e del nazionalismo, bisogna certo battere i liberal, ma prima di tutto fare terra bruciata dei conservatori, sparargli, allenare su di loro come bersagli i fucili in mano al popolo. Quella di Trump pistolero contro Liz non è solo una gaffe, un’enormità illegale, una delle tante manifestazioni di odio sfacciato, iperbolico, è una necessità politica.
Lo hanno capito Brett Stephens, con particolare lucidità e disincanto, e molti altri: votare per Harris e far perdere Trump vuol dire salvare il salvabile di uno stile e di idee e esperienze che con Harris e con l’obamismo non hanno nulla a che fare, ma che per tornare a avere voce nella politica americana e mondiale devono sbarazzarsi dell’equivoco mondo MAGA. Certo, era più facile con Joe Biden, vecchio politico centrista e pilastro dell’establishment tradizionale verso il quale, dopo l’esito delle ultime presidenziali, contestato dall’insurrezione golpista e cornuta del 6 gennaio, la convergenza dei conservatori aveva qualcosa di meno innaturale di quella richiesta oggi per il voto democratico a Kamala Harris. Furono repubblicani ancora memori della lezione del Grand Old Party, funzionari e giudici, anche nominati da Trump negli anni precedenti, a demolire le pretese di rovesciare il risultato (novembre 2019) dei Giuliani e degli altri della cricca. Sono venute da loro, dall’interno della vecchia amministrazione Trump, e dall’esercito e dall’intelligence, le critiche più dure alle pretese dell’Arancione, perfino le accuse di fascismo. Una piccola ma significativa speranza è appesa anche a questo scontro tra conservatori e populisti, altrettanto significativo di quello più scontato, ovvio, che oppone le élite democratiche, le donne invitate da Julia Roberts a tradire i mariti trumpiani nell’urna (Dio ti vede, tuo marito no), all’orda dei deplorables.
tra debito e crescita