(foto EPA)

verso le presidenziali

Atti di pace inconsapevole nell'America profonda

Simona Siri

Il cuoco messicano e l’avventore trumpiano. La gentilezza e le armi. Il  viaggio e il film di Gianluca Vassallo per capire il voto di domani

"Dove siamo? E’ una bella domanda: nel mezzo del repubblicanesimo più profondo”. Gianluca Vassallo è in giro da inizio ottobre. Quattro settimane con la cinepresa in spalla per raccontare le elezioni più importanti della recente storia americana. Se questo paese ha un cuore, un nocciolo, è quello che il regista sardo vuole scoprire. Chilometro dopo chilometro, segnale stradale dopo segnale stradale, cartello elettorale dopo cartello elettorale alla ricerca di dettagli, storie, umori che spesso sfuggono alla fredda analisi politica e che solo un occhio più poetico può cogliere. “Siamo partiti da New York, poi Pennsylvania, poi siamo andati in Ohio e da lì in Illinois. Dall’Illinois siamo stati in Wisconsin, dal Wisconsin siamo arrivati in Iowa. Oggi partiamo per il Sud Dakota e poi torniamo a New York. Siamo in sette e ci muoviamo in macchina, una di quelle giganti che esistono solo qui. Nel gruppo abbiamo anche una forte componente ecologista per cui stiamo anche attenti a non inquinare troppo, e comunque in aereo sarebbe stato peggio”. 

 

Una fascinazione, quella per l’America, che viene da lontano ma che ha come punto di svolta un’altra elezione storica, quella del 2016, così uguale e diversa allo stesso tempo. Vassallo quell’anno era qui a lavorare per un progetto fotografico con Safilo, un viaggio nel Midwest a visitare i loro ottici di provincia che è poi diventato una mostra in una galleria di Chelsea. Durante questo viaggio, in una città chiamata Kutztown lui e il suo assistente si fermano a mangiare in un tipico diner frequentato da sostenitori di Donald Trump. “Ci ha aperto la porta questo signore che ci aveva anticipato nel parcheggio, indossava il berretto MAGA. Ci chiede se siamo stranieri, ci dice che l’hambuger lì è ottimo. Poi si siede al banco, davanti a lui la tv che manda le immagini di Fox News. Quando gli arriva il cibo, mi giro verso la cucina e vedo dentro il cuoco, chiaramente messicano”. Il momento in cui il trumpiano, sotto gli occhi del messicano, addenta il cibo da lui preparato è secondo Vassallo un atto di pace inconsapevole. Su questo costruisce l’idea di un film legato a come le nostre interazioni quotidiane siano implicitamente degli atti di pace e fiducia verso gli sconosciuti, di qualunque matrice etnica e sociale siano composti. “Sto attraversando l’America cercando di ritrovare questa storia giorno dopo giorno, diner dopo diner”. Non a caso il film si intitola The Lunch, il suo terzo lungometraggio (dopo Il Posto e La Sedia).
“Attraversiamo il paese e ogni incontro che facciamo ci porta al prossimo. L’idea è quella di raccontare il sentimento profondo dell’America in un momento elettorale che potrebbe avere ripercussioni in tutto l’occidente.  Io ricordo ancora il silenzio di New York il giorno dopo la vittoria di Trump, quello che De André chiama il silenzio terrificante. Ecco, da quel silenzio è successo poi che l’elezione di Trump ha sdoganato i vari Erdogan, Meloni, la destra nazionalista tedesca che oggi, grazie a quel momento storico, sono legittimati a sentirsi parte del momento democratico. Osservare le elezioni americane, nel momento di maggior polarizzazione che la storia ci ha messo davanti dal dopoguerra a oggi in occidente, secondo me significa osservare quello che succederà nei prossimi decenni anche in Europa”. 

 

Vassallo ha una convinzione: che il sentimento profondo che lega gli americani al loro paese e che dà a ciascuno la libertà di interpretare il significato del paese stesso in una sorta di simbiosi da esistenza individuale e nazionale, è la chiave di lettura attraverso la quale capire cos’è che muove la dimensione più popolare dell’Europa a guardare a destra e a guardare in qualche modo in una direzione che è antistorica rispetto alla loro condizione materiale. E per farlo, per capire, bisogna attraversarla questa America, incontrarla, parlarci. E anche lasciarsi sorprendere. “Ieri siamo stati a casa del un proprietario di un ranch, uno che fa crescere le mucche per poter vendere il loro Dna in tutto il mondo e così garantire la migliore efficienza possibile del bestiame per la macellazione. Un uomo molto ricco, ultraconservatore, con una dozzina di fucili in casa, circondato da un paesaggio magnifico. Un cowboy che a noi sembra un pazzo, ma che ci ha accolto in casa sua per due giorni, insistendo, ci ha dato un tetto e da mangiare, dimostrando un’accoglienza straordinaria. Ecco, quello che mi ha colpito è la dicotomia tra pensiero politico e gentilezza, che non è una gentilezza formale. Una grande apertura verso l’altro che però è tutelata dalla sicurezza fornita dal fucile: io ti abbraccio perché so che ti posso sterminare. Questo essere sul confine tra profonda apertura verso l’altro e senso di sicurezza determinato al fatto che sei in casa mia e io sono armato è il filo che lega molti degli incontri che abbiamo fatto”. 

 

Vassallo racconta poi di Michelle, una pastora di una chiesa luterana nella quale i gay, le lesbiche, la comunità queer, gli immigrati e tutte le differenze sono ben accolte, tanto che è stata lei la prima a sposare in Wisconsin una coppia gay. Oppure del coach e preside di una scuola superiore a Dickson, il paese natale di Ronald Reagan. Una persona di enorme cultura e di enorme consapevolezza che racconta come i cambiamenti siano lenti in questa parte di America che sembra ferma a 50 anni fa. “Qui non siamo dentro il sogno americano, siamo un po’ dentro l’America, che è una cosa diversa dal sogno”, dice. Un viaggio in cui l’altra componente protagonista è la vastità, le enormi distanze che spiegano così tanto della cultura e della società americana. “La vastità dello spazio influisce su tutto, dalla percezione del tempo alla percezione del grado di sicurezza di che cosa è tuo e di che cosa è dello stato, di che cosa è privato e di che cosa è pubblico, e quindi influisce anche sul voto, sull’essere democratici o repubblicani”. In The Lunch la politica non è in primo piano, ma affiora dagli schermi delle televisioni all’interno dei diner, dai cartelli con i nomi dei candidati che fanno bella mostra di sé nei cortili, dalle magliette che indossano i personaggi incontrati via via. “Quello che racconto e propongo nel mio film è la verità della vita delle persone, come si procurano il cibo, come stanno in relazione con i loro vicini, cosa fanno quando lavorano perché secondo me è il modo più naturale per offrire al pubblico un osservatorio su perché vengono fatte certe scelte. E’ facile raccontarsi dicendo io sono conservatore o io sono democratico, ma il perché lo percepisci dal quotidiano”. Ed è da questo quotidiano che se non si giustificano certe scelte, almeno si capiscono. “Abbiamo visto grandi ricchezze inaspettate nelle comunità più agricole e moltissima povertà dappertutto, una povertà che non ti spieghi perché la vedi davvero solo quando ti aprono la porta di casa, mentre quando osservi il paesaggio è sempre tutto molto ordinato e decente, come se la dimensione pubblica fosse sempre consolatoria e nel privato esistesse il dato di verità sulla condizione materiale”. 

 

La sporcizia di certe case, la trasandatezza di certi salotti, l’assenza di cura. Ambienti diversi che portano a discorsi diversi, a priorità diverse. In questa America ultra bianca e molto religiosa non si discute di guerra culturale o di bagni per i ragazzi trans, si parla di sopravvivenza, di Dio e di ineluttabilità, e  la sproporzione tra chi vota Trump e chi vota Harris è schiacciante, così come schiacciante alla vista è la predominanza delle bandiere rosse MAGA. Alla fine della chiacchierata, torno con Vassallo sull’immagine che ha dato origine a tutto: il cuoco messicano che cucina l’hamburger per un trumpiano e che lui definisce un gesto di pace. Perché, gli chiedo. Non è quello il simbolo di tutto quello che non funziona in America, della lotta di classe, del capitalismo che dice sì agli immigrati solo se sono trattati da schiavi? “Dobbiamo separare l’atto poetico dalla realtà. Sono d’accordo con te che è un’immagine problematica, ma a livello simbolico c’è l’intimità dell’atto, il simbolismo di ingerire cibo preparato da qualcun altro, le sue mani che vengono in contatto con la nostra gola, con il nostro interno, quasi. E’ un rapporto intimo. Suggerire che nella nostra quotidianità ci sia la possibilità di riconoscere l’altro e accettarlo può essere un messaggio potente. E’ il vedersi da fuori, nei nostri atti più banali che può ricordarci come siamo davvero tutti uguali”.