esaurimento americano
L'America in crisi d'identità si prepara al voto. Parla Jeffrey Goldberg
Il paese ha i nervi a pezzi, ci dice il direttore dell’Atlantic, e l’istinto dittatoriale di Trump è una minaccia seria. Pensieri tetri in una Washington in marcia, in cui i democratici cercano leggerezza e dicono: non è questa la fine dell’America
L’America “è in una crisi d’identità, o forse è un esaurimento nervoso, o entrambe le cose”, dice Jeffrey Goldberg, direttore dell’Atlantic, il magazine più bello del mondo. “Il cliché qui da noi è guardare l’Italia e dire: santo cielo, gli italiani cambiano governo ogni sei mesi, non sanno decidere da chi farsi governare, vivono nel caos. Ma ora anche noi abbiamo la nostra versione di questa confusione: non sappiamo più decidere chi siamo, c’è un qualcosa di bipolare in America. Siamo in una profonda crisi d’identità, Donald Trump è il sintomo di molti guai, ne accelera altri, ma non è la causa di questa crisi. Non sarebbe potuto esistere senza questa crisi d’identità, senza l’impatto dei social media sulla democrazia, senza la trasformazione della nostra politica in intrattenimento. Trump non sarebbe potuto esistere in un paese che non stesse già lottando per trasformarsi in una nazione multiculturale”.
Alla terza candidatura di Donald Trump, la sorpresa del 2016 si è riassorbita e, per forza, si è dovuto ammettere che la sua vittoria non era una parentesi, un’anomalia di un sistema tutto sommato funzionante. “Quando Barack Obama fu eletto nel 2008 – dice Goldberg – molti pensarono: ok, è finita una fase della nostra storia e ora ne comincia una nuova. Ma l’elezione di Trump mostrò che a gran parte degli americani quella nuova fase non era piaciuta per nulla: Trump rappresentava le forze di reazione a quella fase, forze vigorose. Così oggi, che sono passati sedici anni dall’elezione di Obama, anche se Trump dovesse perdere, ci ritroviamo ancora di fronte a uno scontro tra quel che Obama rappresentava e quel che rappresenta Trump. Vogliamo dirigerci verso una società multietnica e tecnocratica o non abbiamo ancora chiuso con il passato, un passato mitico, ideologico?”.
Alla marcia delle donne a Washington sabato pomeriggio la risposta è chiara e vitale, le elucubrazioni sull’America coi nervi a pezzi non si sentono, ci sono il domani e il futuro nei canti e nelle chiacchiere lungo la strada che porta alla Casa Bianca, dietro a uno striscione verde: “Non torneremo indietro” (ci sono anche grosse bandiere blu con la scritta bianca “vote”, dei water disegnati sui cartelloni con un parrucchino arancione in mezzo: “A volte bisogna tirare l’acqua due volte”, moltissimi cartelli scritti a mano sul diritto di aborto, uno dice: “Se fossero gli uomini a restare incinti, si potrebbe abortire a ogni bancomat”). C’è anche la rabbia, certo, e c’è la paura del ritorno dell’ex presidente con tutta la sua imperdonabile cupezza, ma non c’è aria di occasione mancata, non ancora, si sparge la voce che Kamala Harris andrà al Saturday Night Live, finalmente una scelta allegra, una scelta su sé stessa e non un’altra risposta alle brutture di Trump, alle accuse di Trump, alle minacce di Trump. Al Snl, Kamala si è messa allo specchio con l’attrice che in questi mesi l’ha imitata, Maya Rudolph, hanno parlato per due minuti, “non rido davvero così, giusto?”, ha chiesto la candidata alla presidenza, “eh un po’ sì”, le ha risposto l’altra Kamala, poi si sono prese la mano e hanno fatto un annuncio-promessa elettorale finendo ogni frase con -ala. Considerato che fuori di lì si parla solo di plotoni di esecuzione (Trump verso la repubblicana Liz Cheney che vota Harris) e di spazzatura (è partita con l’accusa a Porto Rico dei trumpiani ed è continuata con il pasticcio di Joe Biden che ha definito in questo modo i sostenitori di Trump, ma la Casa Bianca ha alterato la trascrizione), un po’ di leggero “end the drama-ala” non può che fare bene.
Qualche giorno fa il New York Times ha riportato un documento del principale superPac che sostiene Harris, Future Forward, che segnalava che “gli elettori convincibili” non sono sensibili all’allarme sulla dittatura in arrivo: “Denunciare il fascismo di Trump non è convincente”. Rispetto al 2020, un numero inferiore di americani dice di essere “molto motivato” a votare o che questa è l’elezione più importante della loro vita. E’ perché, nel diluvio di bugie e berci razzisti, s’è persa la gravità del momento o perché, sotto gli strati di terrore per un secondo mandato di Trump, c’è la consapevolezza che il mondo non finirà il 6 novembre? Le donne che hanno partecipato alla marcia verso la Casa Bianca non riescono a immaginare un futuro in cui Harris non vinca, un secondo mandato Trump è terrificante e disperante. Eppure la possibilità non è remota, i sondaggi da settimane dicono che c’è un pareggio, davvero c’è il rifiuto (ancora!) di un evento che può accadere al 50 per cento?
Il primo numero del 2024 dell’Atlantic aveva una copertina bianca e arancione con il titolo: “Se Trump vince”. Nel suo editoriale, Goldberg scriveva: “Il nostro paese è sopravvissuto al primo mandato di Trump, pur avendo subìto danni seri. Un secondo mandato, se dovesse esserci, sarà molto peggio”. Chiedo a Goldberg se ha sottostimato la minaccia di Trump, e lui ride: è abituato a essere accusato di eccessivo allarmismo, catastrofismo, pessimismo. Però dice: “Ci sono cose, in questa campagna elettorale, che ancora riescono a sorprendermi. Non so se è questo il termine giusto, mi rattristano oltre che colpirmi: Trump lo conosciamo, è stato accusato di molti reati, per alcuni è stato condannato, è spesso crudele con certe persone e con certi gruppi di persone, eppure ha il sostegno di mezzo paese. Negli ultimi mesi è diventato ancora più cupo, si è messo a parlare di dittatura in un modo molto più disinibito di quanto avesse mai fatto prima: c’è molto da essere preoccupati, più adesso che qualche tempo fa, è vero”.
Goldberg ha passato gli ultimi dieci anni a studiare, definire e denunciare “l’istinto dittatoriale” di Trump: ricorda che gli era lampeggiato davanti agli occhi nel 2015, quando l’allora “implausibile” candidato alla presidenza aveva detto del senatore dell’Arizona John McCain: “Non è un eroe di guerra, a me piacciono le persone che non si sono fatte catturare, ok?”. Trump aveva imitato McCain a un comizio: il senatore era stato fatto prigioniero in Vietnam e a causa delle torture durate cinque anni non era mai più riuscito a muovere normalmente le braccia. “Il disprezzo di Trump per chi si mette a disposizione del proprio paese – dice Goldberg – è costante e peggiora”.
Ai tempi dell’università, Goldberg era partito per Israele, si era arruolato con l’esercito: erano gli anni della Prima intifada, faceva la guardia nella prigione di Ktzi’ot, nel deserto del Negev, dove venivano rinchiusi i palestinesi coinvolti nella rivolta (anche Mohammed Sinwar, fratello di Yahya, ma solo per qualche mese). Ha raccontato quell’esperienza in un libro-dialogo con un insegnante di matematica palestinese rinchiuso a Ktzi’ot: è stato pubblicato nel 2006, quando Goldberg era diventato uno dei più importanti inviati in medio oriente, autore del New Yorker conteso da molte testate (pare che nel corteggiamento da parte del proprietario dell’Atlantic ci fossero anche dei pony per i figli di Goldberg). Leggendo “Prisoners: A Muslim and a Jew Across the Middle East Divide”, ritrovo il misto di sorpresa, disillusione, rassegnazione che ha oggi il direttore dell’Atlantic quando delinea gli impulsi dittatoriali di Trump: Goldberg scrive che avrebbe voluto essere più giovane per andare a uccidere i nazisti con le sue mani, ma si prende in giro quando, appena diventato guardia del penitenziario nel deserto, confisca un sasso a un palestinese che ha la forma della Palestina dal fiume al mare, senza Israele, e prova a fargli dire che la convivenza è possibile: il palestinese finisce in isolamento, Goldberg resta a fare i conti con la sua ingenuità. “Trump ha esplicitato spesso il suo disprezzo per chi ha prestato servizio nelle forze armate e per la devozione al dovere, all’onore e al sacrificio – dice Goldberg – Alcuni ex generali che hanno lavorato per lui dicono che l’unica virtù militare che apprezza è l’obbedienza”. Nel suo ultimo articolo sull’Atlantic, Goldberg riporta una frase di Trump confermata da due persone che erano presenti quando l’ha detta: “Ho bisogno del tipo di generali che aveva Hitler, persone totalmente fedeli, che seguono gli ordini”. Goldberg dice che nell’ultima parte della campagna elettorale, al disprezzo sistematico per chi è stato catturato, ferito o ucciso mentre era nell’esercito (c’è stata anche la scena con il pollice alzato al cimitero di Arlington e la gara tra medaglie d’onore per i militari e i civili che secondo Trump è vinta dai secondi) si è aggiunto “il desiderio di esercitare il potere militare e il potere sui militari nel modo di Hitler e dei dittatori”. Goldberg ha parlato con il generale John Kelly, ex chief of staff di Trump che più volte ha descritto la fascinazione trumpiana per le pratiche eversive e dittatoriali. Quando l’allora presidente aveva fatto riferimento ai generali tedeschi Kelly gli aveva chiesto se intendesse i generali di Bismarck, e poi sapendo che Trump non aveva idea di chi fosse Bismark, aveva detto “kaiser”, ma Trump aveva insistito: no no, intendo proprio i generali di Hitler. Kelly gli aveva allora detto del complotto, del suicidio di Rommel, ma Trump non sapeva neppure chi fosse Rommel. Goldberg dice che “la curva di apprendimento piatta” dell’ex presidente è sconcertante, e ora si somma a due nuovi fattori: Trump non ha più freni e gran parte delle persone di buon senso che c’erano nel primo mandato non c’è più: molti avevano proprio competenze in materia di sicurezza e di difesa. Qualche esempio, non esaustivo, come molti degli elenchi sulle brutture trumpiane che i media americani stanno compilando alla vigilia del voto. Kelly ha detto che Trump “non ha alcuna considerazione delle istituzioni democratiche, della Costituzione e dello stato di diritto”. Uno degli ex segretari alla Difesa, Mark Esper: “Trump non può essere un buon presidente perché mette sé stesso davanti alla nazione”. Uno degli ex consiglieri per la Sicurezza nazionale, John Bolton: “Ci saranno grandi feste al Cremlino se Trump viene eletto, Putin lo considera un interlocutore facile”. Un altro ex consigliere per la Sicurezza, HR McMaster: “Sarebbe distruttivo per il nostro paese” un secondo mandato di Trump. “Se parli con molti che hanno lavorato alla Casa Bianca con lui – dice Goldberg – i cosiddetti ‘adulti nella stanza’ dicono che tutti i guardrail, le barriere di protezione, sono venuti giù”. A sostituire gli adulti ci sono Elon Musk e Robert Kennedy jr.
Kamala Harris è stata al Saturday Night Live per ritrovare lo slancio gioioso dell’inizio che si è perso nei toni dark delle ultime settimane. Le analisi dei democratici dicono che la minaccia “esistenziale” non risulta molto convincente: le bugie di Trump sono state normalizzate. La domanda indicibile e i “non lo so” schietti e rari
“I soldi di Musk non sono tanto importanti – dice Goldberg, che facendo il mestiere che fa è più interessato alla devastazione del discorso pubblico e dell’informazione – quanto il fatto che sia il proprietario di una piattaforma social molto potente e che la utilizzi per uno scopo evidente: condizionare l’esito delle elezioni. Quando Musk comprò l’allora Twitter, credo che nessuno davvero si rese conto di quello che avesse in mente, ma eccoci qui: ha un effetto invero distorsivo. E si sta posizionando per essere una delle persone con più potere in un’eventuale Amministrazione Trump, sia che ci lavori effettivamente sia che resti fuori. Musk fa tutto quel che è necessario per avere un’influenza enorme e, al principio di tutto, c’è il fatto che anche lui fa parte del movimento reazionario che prese forma dopo la presidenza Obama”. Il proprietario dell’ex Twitter diventato X, di Tesla e di SpaceX, il privato che più ha accesso ai documenti riservati della sicurezza americana – come ha scritto il New York Times – e che si intrattiene al telefono con Putin – come ha scritto il Wall Street Journal – “resta un personaggio molto strano per me, perché da una parte è un genio, un genio della tecnologia, ma la sua personalità applicata alla politica risulta immatura, bizzarra, estrema. E’ molto difficile da decifrare, o almeno lo è per me”, ammette Goldberg con l’onestà schietta e rara di chi sa dire: “non lo so”, la stessa che mostra quando parliamo della normalizzazione delle bugie di Trump. “Non tutti i leader politici hanno questa spregiudicatezza nel mentire e soprattutto finiscono nei guai quando dicono bugie”, dice, e mi fa pensare alla scena del film “Idi di marzo” in cui Ryan Gosling dice al suo capo, il governatore della Pennsylvania George Clooney: “Vuoi essere presidente? Puoi iniziare una guerra, puoi mentire, puoi tradire, puoi mandare in bancarotta il paese, ma non puoi scoparti delle stagiste, ti fanno fuori” – che tempi. “Non mi so spiegare perché Trump abbia questa licenza – continua Goldberg – Forse se menti costantemente, con questa frequenza e in questo modo spettacolare alla fine ti vengono dati permessi che gli altri non otterranno mai. In fondo, e all’inizio di tutto, c’è che Trump è un intrattenitore, è un uomo di spettacolo. Non so perché è stata normalizzata la menzogna trumpiana ma in un senso più generale penso che all’origine ci siano due fattori: i social media ma, prima ancora, la reality tv, che ha contribuito a creare Donald Trump, così lo spettacolo è diventato politica e viceversa”.
Maggie Haberman, giornalista del New York Times che ha scritto un libro su Trump intitolato “Confidence Man”, racconta un aneddoto che sul momento non aveva compreso nemmeno lei: nel 2016 in Iowa, alle primarie, quando ancora l’incubo trumpiano sembrava impossibile, gli elettori avevano aspettato e accolto Trump con l’entusiasmo che si riserva ai conoscenti: era uno di loro, perché lo vedevano sempre in televisione. “Un’altra delle cose che abbiamo sottovalutato – dice Goldberg – è stata la forza della reality tv, il personaggio televisivo che diventa guida del paese in un momento di grande incertezza identitaria”. Poi tutto è scoppiato con i social media, su questo tema Goldberg è netto e senza incertezze: “I social media abbassano le barriere a chi vuole entrare nella conversazione: in questo modo abbiamo certamente democratizzato i media, ma abbiamo anche messo fine al patto secondo cui si scrive una cosa soltanto se la si è verificata”.
Il rapporto tra media tradizionali e nuovi media, nonché la capacità di fare un’informazione credibile che il pubblico riconosce come tale, è tornata in cima alle conversazioni da quando Jeff Bezos ha bloccato la pubblicazione di un endorsement (a Kamala Harris) sul Washington Post, giornale di sua proprietà: 250 mila abbonamenti disdetti, firme che se ne sono andate, critiche dure degli ex, molti articoli di spiegazione di chi invece è rimasto e si è tenuto posto e stipendio. Quando gli ho chiesto che cosa ne pensasse, Goldberg è stato sbrigativo, poi ho capito perché: probabilmente stava scrivendo il comunicato con cui ha annunciato di aver assunto all’Atlantic due autori esperti e brillanti del Washington Post, Robert Kagan (che era stato tra i primissimi a dire che la scelta di Bezos era un tradimento e a dimettersi) e Danielle Allen (Goldberg aveva anche pubblicato l’articolo più bello sulla questione degli abbonamenti disdetti: se si vuole colpire Bezos, bisogna disdire l’abbonamento a Prime non al Washington Post, altrimenti si fa male soltanto al Washington Post, ma naturalmente è più facile rinunciare a un giornale che alla consegna in mezza giornata). L’arrivo di Kagan e Allen è “un gran beneficio” – dice il comunicato – per un giornale impegnato a raccontare “la crisi della democrazia in tutte le sue manifestazioni”. Nell’editoriale del numero “Se Trump vince”, Goldberg scriveva come se fosse oggi: “L’Atlantic, come i nostri lettori sanno, è una rivista deliberatamente non di parte: “Of no party or clique”, nessun partito nessuna cricca, è il motto dal 1857 ed è vero ancora oggi. La nostra preoccupazione con Trump non è che è un repubblicano e che ha idee conservatrici – quando gli conviene. Siamo convinti che una democrazia forte abbia bisogno per prosperare, tra le altre cose, di un partito di sinistra e di un partito di destra. La nostra preoccupazione è che il Partito repubblicano si è ipotecato a un demagogo antidemocratico del tutto privo di onestà”.
Torniamo all’istinto dittatoriale di Trump, alle ultime due settimane elettorali tetre, alle reazioni al cosiddetto “meme fascista”, cioè alla decisione del comitato elettorale di Harris di abbandonare i toni gioiosi (che avevano portato soldi ed entusiasmo) per denunciare il pericolo illiberale rappresentato da Trump, il voto “esistenziale” per il futuro della democrazia americana: funziona? Goldberg è convinto che la minaccia sia seria e reale, che la confusione dell’informazione contribuisce a sottostimarla e che i segnali di un eventuale secondo mandato molto più drammatico del primo ci sono tutti. Come abbiamo fatto, allora, a ridurci di nuovo così, chiedo, e Goldberg parte dagli errori fatti dal Partito democratico – “Joe Biden non avrebbe dovuto ricandidarsi fin dall’inizio” – ritorna sulla reazione del trumpismo all’obamismo, alla crisi di identità, alla crisi di nervi, ma poi di nuovo ammette: “Se mi stai chiedendo com’è possibile che non si sia riusciti a trovare in otto anni qualcuno in grado di battere uno come Trump, non so cosa rispondere”.
Una risposta al perché Trump sia ancora così competitivo e perché la campagna del Partito democratico, al netto del cambiamento del candidato in corsa che in ogni caso l’ha ravvivata, non sia stata né facile né convincente non si trova. Negli scampoli finali della marcia delle donne, quando s’è fatto buio e i berretti all’uncinetto sono tutti finiti, resta sospesa questa domanda, assieme all’altra: e se poi Kamala non vince? E’ stata una bella giornata, nessuno vuole rifletterci troppo, le ultime ore di attesa vogliono essere come le prime, quando Harris è arrivata, s’è smesso di parlare di passato e di demenza e si è iniziato con il futuro, le ragazze monelle, le palme da cocco, i sorrisi, libertà-e-gioia. Si vuole parlare come al Saturday Night Live, facendo finire tutto per -ala, lasciandosi cullare solo dai dati buoni, come quelli arrivati inaspettatamente dall’Iowa. Poiché il rifiuto di prendere in considerazione un secondo mandato di Trump è spaventoso e contagioso, rileggo due cose degli ultimi giorni. James Bennet, che era il capo delle pagine editoriali del New York Times licenziato per aver pubblicato l’articolo di un senatore repubblicano e che ora cura la rubrica americana dell’Economist, Lexington, dice che la democrazia americana sta dando grandi segni di vitalità, altro che morte imminente: la partecipazione al voto è in aumento, la polarizzazione sulla razza è diminuita, il movimento per restaurare il diritto all’aborto si sta dimostrando tenace ed efficace. Conclude Bennet: “Gli americani, sembra, non hanno dimenticato come far funzionare la democrazia a difesa della loro libertà”. Poi riprendo l’Atlantic, in omaggio anche ai “non lo so” di Goldberg, e leggo quello che avrei voluto sentirmi dire dalle ragazze in piazza a Washington per Harris: lo ha scritto McKay Coppins, che ha chiesto alle persone che hanno partecipato al comizio di Kamala all’Ellipse che cosa succede se lei non vince, finisce l’America? Una ragazza di 19 anni gli dice: “Non penso che la democrazia viva in un’istituzione soltanto. Vive nelle persone, e questo è un istinto difficile da soffocare”.
L'editoriale dell'elefantino