il voto in america

In fila ai seggi di Washington, tra eroine dei diritti civili e black power. Un po' di speranza e tanta cautela

Giulio Silvano

Elicotteri pattugliano tutto il quadrato del district of Columbia mentre nei seggi la gente aspetta pazientemente in coda di ricevere lo sticker con scritto “I voted”

Washington. Il District of Columbia è una delle tante Americhe, un quadrato storto di 260 chilometri quadrati dove vivono diplomatici, politici, dipendenti pubblici ed expat delle organizzazioni internazionali. A molti dipendenti di queste mega organizzazioni hanno consigliato di evitare downtown e certe zone intorno alla Casa Bianca nel giorno del voto e soprattutto nei giorni successivi. Molti si sono presi il giovedì e il venerdì di ferie e si fanno il weekend nei bnb del New England. Qui, anche se non si eleggono senatori o deputati – “Taxation without representation” è il motto del distretto, tasse ma no rappresentazione, e c’è scritto pure sulle targhe – sarà il centro di tutto. Qui c’è stato l’attacco al Campidoglio nel 2021 e alcuni negozi a Chinatown e intorno a Capitol Hill hanno messo delle tavole di legno davanti alle finestre, che non si sa mai. Si aspetta di sapere che cosa faranno gli average Joe, Joe l’idraulico, in Iowa e in Georgia, ma poi gli effetti si vedono qui.

 

Elicotteri pattugliano tutto il quadrato mentre nei seggi – che sono nelle scuole medie, nelle chiese presbiteriane, nelle chiese battiste, nelle biblioteche dedicate a Martin Luther King – la gente in coda pazientemente aspetta di ricevere lo sticker con scritto “I voted” (c’è anche in spagnolo). Sticker da appiccicare sulle magliette con la compianta giudice Ruth Bader Ginsburg o con le eroine afroamericane dei diritti civili o con scritto Vote, dove la V sono dei libri, la O un pugno del black power, la T un utero e la E una bandiera LGBTQ+. Nei giardini delle case greek revival, con ancora qualche scheletro di plastica e qualche zucca arancione un po’ marcia, ci sono i cartelli Harris Walz e ogni tanto qualche bandiera palestinese o ucraina. Dai seggi escono alcune donne di mezza età con la maglietta rosa e piangono e non vogliono parlarne troppo ma dicono che “votare una donna è un sogno che da bambine hanno sempre avuto”. Ma Hillary Clinton?, chiediamo. Di Hillary non vogliono parlare, come se fosse una delusione ancora troppo forte per loro. Alcuni tirano fuori la Russia, i social. Qui nel District of Columbia lei, quella che doveva essere la prima presidente donna, aveva preso nel 2016 più del 90 per cento. Nel 2020 qui Joe Biden aveva preso più del 92 per cento. Trump qui non aveva nemmeno vinto le primarie, nel 2016 era arrivato terzo, dopo gente come John Kasich che adesso nessuno sa nemmeno più chi sia. E così, bruciati dalla sconfitta di Hillary, questa volta nessuno festeggia in anticipo, sono tutti cauti. Si aspetta la mezzanotte, o il mercoledì mattina, o, dicono gli analisti, anche una settimana prima che tutte le contee certifichino i voti.

 

Un posto sicuro Washington DC per Harris ma che ovviamente non basta. Deve vincere almeno la Pennsylvania e il Nevada, magari il Michigan. Deve vincere le zone rurali e i sobborghi, non basta questa città costruita a tavolino dai padri costituenti, questa Atene del federalismo settecentesco con più bandiere straniere di un hotel. I pazzi sondaggi di questi giorni sono altalenanti e sembrano nutrire sadicamente un’ansia che qui è palpabile, negli Starbucks e negli uffici del Fondo Monetario Internazionale. Harris sarà qui stasera a festeggiare. Non aveva senso andare nel suo stato, la California – come è prassi per i candidati, Trump sarà a Mar-A-Lago – stato che sarà automaticamente blu e con troppe ore di fuso. E così la dem ha scelto la sua Alma Mater, la storica università afroamericana, Howard University, per quella che quasi tutti qui sperano sia un party di vittoria. Le piccole minoranze trumpiane, nei pochi quadranti rossi, come a Navy Yard, sul fiume Anacostia, sotto Capitol Hill, cercano di fare gruppo nei bar di H street, non lontano da dove abita Steve Bannon, il Rasputin trumpiano appena uscito di prigione. Alcuni, da una parte e dall’altra, dicono che se succede qualcosa che non va arriveranno coi trattori dalla West Virginia a protestare. “Questa volta non è come l’altra volta”, dice qualcuno. “Questa volta si sono organizzati”.