Elezioni americane
Le parole chiave di un'America che si ripromette un'unità introvabile
I repubblicani si sono inizialmente ribellati a Donald Trump, poi hanno pensato che occupare la Casa Bianca era pur sempre meglio che non farlo e si sono arresi. Invece con l'elogio del dissenso, Kamala Harris cerca di ricostruire ponti esplosi
Washington, dalla nostra inviata. Ci sono alcune distorsioni che non si raddrizzano in una notte elettorale, anche se le urne aperte sono l’aggiustatutto migliore che c’è, ancor più se la partecipazione è tornata a essere significativa, dopo decenni di apatia. Nell’America mezza rotta, i due partiti che la governano si rinfacciano le responsabilità di questo sfilacciamento, ripiegati su loro stessi e accucciati in un nuovo declinismo che li rende evidentemente incapaci di vedere che il resto del mondo, cioè noi, prova una grandissima invidia. L’Economist l’ha messa in copertina un paio di settimane fa, questa invidia, raccontando “la performance economica stellare” degli Stati Uniti, e indicando che gli unici in grado di riportare la nazione sulla terra sono i partiti e la politica, con le loro involuzioni. Ne abbiamo viste in particolare due.
La prima riguarda il Partito repubblicano americano che negli ultimi otto anni ha subìto una trasformazione spettacolare e contagiosa, con tentativi di emulazione più o meno riusciti in Europa. Donald Trump è arrivato come un meteorite e ha imposto il suo metodo fondato sulla fedeltà e l’accentramento del controllo, i repubblicani si sono inizialmente ribellati, poi hanno pensato che fosse il caso di stringere i denti, occupare la Casa Bianca è pur sempre meglio che non farlo, e poi si sono arresi. Le conseguenze di questa sottomissione si vedranno ora, dentro e fuori il partito, nelle istituzioni plasmate da un impulso eversivo sempre meno nascosto: c’è un senso di incompatibilità inedito nell’America del bipartitismo culturale, tanto che c’è qualcuno, tra i commentatori, che non esclude la possibilità che nasca un terzo partito di chi non può stare con Trump ma nemmeno con il Partito democratico, pur così variegato nelle sue correnti. Queste analisi sono tipiche dei momenti di incertezza, ma “incompatibilità” è una parola che ricorre spesso nelle conversazioni a Washington, sintomo di fratture che attraversano la politica e l’elettorato.
Kamala Harris ha introdotto nei giorni conclusivi della campagna elettorale un antidoto (retorico, per ora) allo sfilacciamento in corso ed è la difesa del dissenso, la possibilità di avere opinioni differenti e poter comunque dialogare. Sembra una banalità, ma è la sintesi della polarizzazione e ancor più dell’ultima involuzione trumpiana che ha portato a etichettare tutto quel che gli è contro come “nemico”. E’ un’arma che si ritorce contro Trump nel suo stesso team – Tim Alberta dell’Atlantic ha documentato scontri epici interni al comitato elettorale – ma che ha l’effetto più devastante fuori di lì, nel discorso pubblico, tant’è che le parole chiave degli ultimi giorni, che ci porteremo appiccicate addosso anche ora, sono state “spazzatura”, “spari”, “fuoco” e naturalmente “imbroglio”.
I veterani della politica americana dicono di non allarmarsi in modo scomposto, gli scontri alle presidenziali non sono mai stati delicati, ma nell’elogio del dissenso, Harris cerca non soltanto di denunciare la cortina ideologica trumpiana che ha interrotto ogni forma di collaborazione, ma anche di ricostruire ponti esplosi. Era l’obiettivo nel 2020 di Joe Biden, ma il fatto che siamo ancora qui mostra che per aggiustare alcune cose serve tempo, intendersi sui nemici davvero pericolosi aiuta.
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