Tutti responsabili
Quello sulla decapitazione di Paty è un processo all'islamismo francese
La rete di radicali che portò all’uccisione del professore di Storia e Geografia il 16 ottobre 2020 è formata da otto persone: da qui parte l’ingranaggio infernale che ha spinto Abdoullakh Anzorov a compiere l'assassinio
Era il 2 settembre del 2020 quando Riss, il direttore di Charlie Hebdo, scrisse nel suo editoriale che la Francia non si sarebbe mai piegata alla barbarie islamista. “Avremmo voluto che i fatti gli avessero dato ragione”, ha scritto Émilie Frèche sul settimanale Le Point. Ma nella tragedia di Samuel Paty, il professore di Storia e Geografia decapitato il 16 ottobre 2020 da un jihadista di origini cecene per aver mostrato in classe le vignette di Charlie Hebdo su Maometto, “né la legge, né l’esecutivo, né l’Amministrazione sono riuscite a mettere fuori gioco i predicatori di odio e a proteggerlo”. “Resta ora il nostro potere giudiziario”, ha scritto Frèche, domandandosi: “E’ ancora solido dinanzi alla guerra condotta contro di noi dall’islamismo radicale?”.
E’ questa la posta in gioco del processo apertosi ieri davanti alla Corte d’assise speciale di Parigi, chiamata a determinare nelle prossime sette settimane le responsabilità degli otto adulti che hanno azionato e alimentato l’ingranaggio infernale che ha spinto Abdoullakh Anzorov, un giovane radicalizzato, a uccidere un insegnante di scuola media di Conflans-Sainte-Honorine, un ussaro della République innamorato della laicità e del libero pensiero come Samuel Paty.
In prima fila, sul banco degli imputati, ieri non c’era Anzorov, che fu ucciso dalle forze dell’ordine francesi pochi minuti dopo aver assassinato Paty, ma due dei suoi amici, Azim Epsirkhanov, 19 anni all’epoca dei fatti, nato in Russia e anch’egli di origini cecene, e Naim Boudaoud, allora diciottenne. Entrambi sono sospettati di aver aiutato Anzorov a procurarsi le armi, coltelli e pistole ad aria compressa, per portare a termine il suo piano omicida, e, in quanto tali, sono perseguiti per “complicità in omicidio a carattere terroristico” e rischiano l’ergastolo. Boudaoud, secondo quanto rivelato ieri dalla stampa parigina, fece anche da autista a Anzorov, accompagnandolo vicino al Collège de Bois d’Aulne di Conflans-Sainte-Honorine il giorno dell’attacco. Il secondo gruppo di imputati è composto dai contatti sul social Snapchat di Anzorov, con cui quest’ultimo scambiava messaggi e contenuti jihadisti. Yusuf Cinar, nato a Evreux e di origini turche, Louqmane Ingar, originario di Saint-Denis de La Réunion, e Ismail Gamaev, ceceno: tutti diciottenni.
Ma c’è soprattutto Priscilla Mangel, colei che avrebbe “convinto” Anzorov a passare all’atto. Madre di famiglia convertita all’islam, all’epoca dei fatti aveva 32 anni. Sui social era molto attiva con l’account “Cicat’s’”, contrazione della sua precedente identità virtuale, “Cicatrice sucrée”, cicatrice zuccherata. Tra il 9 e il 13 ottobre, ossia tre giorni prima dell’assassinio, aveva scambiato 46 messaggi con Anzorov. Quest’ultimo chiedeva costantemente notizie su ciò che stava accadendo al Collège du Bois d’Aulne, se Paty era stato sanzionato o no dalla direzione dell’istituto. E Priscilla lo teneva aggiornato. “Ora le cose sono molto chiare, nessun pretesto, nessuna scusa. Vogliono veramente sradicare la fede dai cuori delle persone”, scrisse la ragazza convertita. “Sì, è così, in nome di Allah non ci riusciranno”, rispose Anzorov.
Gli “amici virtuali” del jihadista ceceno sono processati per associazione a delinquere con finalità di terrorismo. C’è infine il terzo gruppo, quello più importante secondo gli inquirenti, che darà luogo ai dibattiti più aspri. E’ formato da Brahim Chnina, il padre dell’alunna all’origine della menzogna che ha fatto precipitare la situazione (affermò che Paty aveva costretto gli studenti musulmani ad abbandonare la classe), colui che su Facebook e WhatsApp ha aizzato la rappresaglia contro l’insegnante, e Abdelhakim Sefrioui. Agit-prop dell’islamismo già sotto i radar dei servizi segreti, Sefrioui aveva pubblicato un video sui social network contro il professore, definendolo “blasfemo” e mettendo in moto la spirale che in dieci giorni ha prodotto l’indicibile. La famiglia di Samuel Paty si aspetta dalla giustizia “una risposta all’altezza della gravità del crimine”.