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Risentimento e mobilitazione faranno la differenza nel voto americano. Intervista a Lawrence Wright

Paola Peduzzi

"Le notizie, le bugie, le stranezze non hanno cambiato la posizione di nessuno dei candidati in  modo misurabile, e questo è davvero bizzarro. Significa che le persone hanno già deciso cosa fare, che sono solidamente divise a metà. Immaginare una riconciliazione è estremamente difficile", ci dice il giornalista e premio Pulitzer

Washington, dalla nostra inviata. La cosa più sorprendente di queste elezioni è che “nulla ha avuto importanza”, dice Lawrence Wright, giornalista, scrittore, sceneggiatore, premio Pulitzer, “le notizie, le bugie, le stranezze non hanno cambiato la posizione di nessuno dei due candidati in  modo misurabile, e questo è davvero bizzarro. Significa che le persone hanno già deciso cosa fare con il loro voto, che sono solidamente divise a metà e che immaginare una riconciliazione è estremamente difficile. Qualcuno dovrà vincere, ma nessuno pensa di dover perdere quindi le cose possono diventare pericolose”. Per mettersi tranquillo Wright ha riletto “The Rise and Fall of the Third Reich”, il saggio sulla storia della Germania nazista scritto da William Shirer negli anni Sessanta, “un libro stupendo”, dice con il suo sorriso rimasto fanciullo quasi dovesse giustificare i pensieri neri, “e un libro terrificante, perché racconta la Germania che scivola nel nazismo senza alcuna resistenza, Hitler arriva, è il più forte, il più scenografico, il più teatrale e il paese si adatta a lui”. 

 

Questi sono i paragoni che facciamo oggi, “e non sono sicuro che il nostro paese sia robusto abbastanza da resistere”. Wright è un osservatore meticoloso della realtà, ha vinto il Pulitzer con “Le altissime torri”, saggio definitivo su come al Qaida è arrivata a colpire l’America l’11 settembre del 2001, e quel metodo – confermato da tanti, ordinatissimi scatoloni-archivi  – lo ha applicato ai saggi prima e a quelli venuti dopo: ho tradotto in italiano per NR edizioni tre suoi libri, l’ultimo in ordine di tempo è “Inferno americano”,  prima ci sono stati “L’anno della peste” e “Dio salvi il Texas”, che è quello che citiamo più spesso perché il suo Texas – mi parla da Austin – è la frontiera da cui osserva ogni cosa: da lì si vedono cose che altrove sfuggono, e lì molte cose americane sono successe prima. Lo si capisce ascoltando che cosa dice dei “tech bro”, gli ex ragazzi della Silicon Valley che ora sono i suoi vicini di casa e che “stanno rimpiazzando lo stato”, fanno quello che lo stato non fa, prendono le decisioni che il governo non prende. 

Nel 2023, Wright ha pubblicato sul New Yorker un articolo dal titolo “La straordinaria trasformazione di Austin”, in cui raccontava come è cambiata la sua città (non ci è nato e ha abitato in molti posti, ma questa è casa), in particolare con l’arrivo dei “rifugiati” dalla Silicon Valley. Visto che Elon Musk è su tutti i palchi trumpiani e che Peter Thiel è il demiurgo politico del candidato vicepresidente dei repubblicani, J. D. Vance, ci mettiamo a parlare di questi suoi nuovi concittadini: “Musk ha costruito il suo compound qui per ospitare tutta la sua famiglia”, il New York Times dice che sono millequattrocento metri quadrati divisi in tre ville, una tutta per lui, le altre per tre madri e undici figli. “Il mio vicino di casa – dice Wright – ha appena comprato una casa con le colonne e le scalinate: è uno di Palantir, un altro di quelli che sono venuti qui, assieme a quelli di Paypal”. Le chiamano le cordate o le gang della Silicon Valley, hanno lasciato la California per il Texas, lo stanno trasformando – alcuni dicono deformando, Wright non è tra questi: “Le cose che stanno facendo sono molto più importanti di quello che fa lo stato. Prendiamo Musk: detesto il suo coinvolgimento nella politica americana da ricco mercante, ma ha reso le auto elettriche un mercato reale facendo quello che nessuno prima di lui aveva ancora capito, cioè: le ha fatte belle. Ha popolato la stratosfera di satelliti: l’Ucraina avrebbe perso la guerra se non avesse avuto Starlink, che le ha permesso di resistere nella prima, cruciale fase dell’invasione russa. Musk sta mettendo chip nei cervelli delle persone cieche, sta pensando a come portarci tutti su Marte. Sono a favore di cose come queste, come potrei non esserlo – di nuovo c’è il suo sorriso fanciullo – lo stato non le fa, le fa Elon Musk. Sta costruendo un futuro, insomma, solo che è un futuro nella sua testa: gli americani non sono rappresentati in questo suo nuovo mondo”, che poi è la grande differenza tra privato e pubblico: la responsabilità. “E’ inquietante tanto potere in un unico uomo – dice Wright – E non è solo, sono tutti così, si muovono insieme a Austin, decidono insieme dove e come investire. A un certo punto Musk ha chiesto al governo di essere pagato per Starlink e, di nuovo, è una cosa che comprendo: un privato che fornisce un servizio vuole essere pagato, ma può anche decidere di spegnere i suoi satelliti in qualsiasi momento e questo sarebbe una catastrofe. Musk ha accumulato un potere immenso, senza controllo, e noi glielo abbiamo lasciato fare”. Noto che Wright subisce il fascino di questo “tech bro” che noi guardiamo terrorizzati, ma non è fascino, dice, è realismo, “il timone ce l’ha in mano lui, il futuro che sta costruendo è molto più importante di quello che Donald Trump o Kamala Harris stanno costruendo”.

 

Noi guardiamo all’America in modo binario, oggi si vota, la scelta è tra due progetti che oltre a essere molto diversi sembrano anche  incompatibili. Anzi, uno dei due rischia di rendere irriconoscibile l’America, per come l’abbiamo sempre conosciuta e per quel che rappresenta per il mondo. Discutiamo sul fatto che gli elettori si rendano davvero conto di quel che c’è in gioco – la democrazia – ma Wright è convinto che questa sia una discussione “troppo intellettuale, le persone reagiscono sulla base delle emozioni, non della razionalità”. Bisogna essere concreti, ma nessuno dei due candidati lo è, per ragioni diversissime ma l’effetto è uguale, e alla fine nel voto restano appartenenza, risentimento: tutto il resto non importa, e non ha condizionato la campagna elettorale.  Wright individua tre fenomeni che si sono sviluppati in questi anni e che sono determinanti, a suo avviso, per comprendere l’America di oggi: hanno tutti a che fare con l’alienazione. “La prima alienazione è quella dei giovani uomini, quelli che non hanno avuto l’opportunità di andare all’università, quelli che hanno sviluppato ostilità nei confronti dell’empowerment femminile e delle politiche identitarie. Non sono soltanto uomini bianchi, succede anche tra gli afroamericani e gli ispanici, e naturalmente questa insofferenza è stata amplificata dal fatto che uno dei candidati alle elezioni è una donna. La seconda alienazione è quella economica: anni di disparità economica non sono stati compensati da un mercato azionario che marcia alla grande e da un tasso di occupazione solidissimo, perché si è consolidata l’idea che la ricchezza sta andando da un’altra parte. Ed è vero – di nuovo il suo sorriso fanciullo – non è una bugia, i ricchi stanno consolidando i loro guadagni, la middle class è stata messa in pausa e i redditi più bassi non sono stati aiutati in modo adeguato. L’alienazione economica ha creato un paradosso: questi alienati hanno finito per spostare le loro preferenze su un miliardario che non paga i suoi debiti, che tratta i suoi dipendenti con disprezzo, che ha commesso reati finanziari. Dovrebbero detestarlo, uno come Trump, invece lo considerano l’unico in grado di intercettare le loro emozioni, e di rappresentare la loro frustrazione economica. Ed è questo paradosso che ci porta alla terza alienazione, l’alienazione delle zone rosse e di quelle blu, meglio conosciuta come il risentimento nei confronti delle élite delle coste, degli stati democratici. Come è noto la mappa elettorale americana è blu sulle coste e rossa nel suo grande centro con alcune lentiggini blu che sono le città, ma ora l’alienazione è data dal fatto che le aree rosse non vogliono più sentirsi dire dalle élite costiere cosa devono pensare, fare, dire”. 

 

Questo risentimento non è nuovo ma tocca un picco preoccupante: Wright ricorda la Dallas in cui viveva negli anni Sessanta, “la politica era molto simile a quella di adesso: una frustrazione rabbiosa che faceva riemergere idee retrograde che parevano superate e un’ascesa dei fanatici di destra in Texas e negli stati della vecchia Confederazione. All’improvviso, le conseguenze di quell’odio che aveva sostituito il senso civico della convivenza sono diventate evidenti, ma ci è voluto l’assassinio del presidente degli Stati Uniti nelle nostre strade perché Dallas, umiliata, cominciasse a fare i conti con il suo estremismo”. Oggi Dallas è una città molto diversa, come lo è Austin, si intravede il futuro, “ma penso che il nostro paese – dice Wright – abbia bisogno di uno choc per cambiare: temo che sarà qualcosa di tragico, lo si vede chiaro che siamo diretti verso la catastrofe”. E’ un sentiero che va oltre i due candidati che “sono impopolari, molto ideologizzati, con progetti sconosciuti”. Gli chiedo cosa pensa di Kamala Harris, dice che ha “molte debolezze nei confronti dell’elettorato moderato: è stata brava a non insistere sulla politica identitaria, ma resta una donna nera e asiatica che arriva dalla California e che ha idee molto di sinistra: le ha un po’ aggiustate ma non abbastanza da diventare una leader in grado di riunire. Credo che un repubblicano moderato oggi non pareggerebbe con Harris, la batterebbe”. Ma c’è Trump, il testimonial della catastrofe: anche se l’alienazione viene prima di lui e resterà dopo di lui, il pifferaio ha una sua importanza, e in effetti ci porta dove  vuole lui. 
Wright ha partecipato alle attività di canvassing del Partito democratico, è andato porta a porta, sa che il Texas voterà per Trump, ma non è più uno stato rosso, ci sono le lentiggini blu delle città e anche un po’ altrove. “La campagna di volontari per i democratici è stata davvero imponente”, Wright non  ricorda di averne mai vista una tanto capillare: non basterà questa volta, ma il processo è in atto, e in questo Harris è stata brava. L’affluenza storicamente asfittica in America ora lo è sempre meno e la mobilitazione, la partecipazione sono forse gli antidoti più efficaci all’alienazione. 

 

Tanta crisi ha però un impatto anche sul resto del mondo e Wright comprende le radici profonde dell’ideologia “America first”. “Il mio paese mi ricorda Baby Huey, che probabilmente nessuno sa più chi sia perché era un cartone di quando ero piccolo io: era un neonato gigante, sempre il più forte di tutti, anche perché a volte si portava dietro  una mazza. Ma era un bambino, si comportava come un bambino, faceva cose da bambino. Ecco l’America è come Baby Huey: potente e  infantile, si aggira per il mondo in modo spesso goffo”. Wright ne fa una questione di strumenti scelti: l’America, dice, sceglie spesso i mezzi sbagliati per fare la cosa giusta, cioè difendere i valori occidentali. E ora c’è un aggravante in più, ha a che fare con il buon esempio: “Considero una nazione esemplare se è giusta e ha un governo competente, e noi ci stiamo perdendo anche su questo. La nostra cultura liberale è l’arma più forte che abbiamo, dobbiamo metterci a posto in casa nostra per poter continuare a essere una superpotenza dei valori”. Gli dico che in realtà in Europa abbiamo bisogno pure del potere militare e finanziario americano: l’Ucraina non ha un problema di ideali, anzi è molto più europea, liberale e occidentale di tanti paesi europei, ma non può fare a meno della superpotenza militare ed economica, altrimenti soccombe. Il giudizio di Wright sulle guerre che l’America ha fatto dopo il 1945 è negativo e senza appello, “il coinvolgimento americano nel tentare di trascinare altri paesi nella direzione che avevamo scelto noi non è mai stato di grande successo”. Dice una frase che mi colpisce e mi deprime: “Non voglio che l’America sia responsabile di tutti i popoli del mondo”, gli dico che al momento basta la responsabilità per il popolo ucraino aggredito e Wright certamente vuole che l’Ucraina non soccomba, ma secondo lui spingere indietro la Russia – cosa che si augura avvenga in fretta – è soltanto il primo passo di un processo più lungo, in cui il mondo prende l’esempio americano ma diventa autonomo. E’ un occasione questa, conclude, e ha di nuovo il suo sorriso fanciullo quando dice che l’America è un paese “tormentato e vulnerabile”, è chiaro che esserne troppo dipendenti, in questa fase, può diventare problematico. 

La nostra conversazione finisce sulla campagna elettorale, racconta la mobilitazione e le difficoltà, “quando c’era Barack Obama era come spingere un masso giù da una collina, ora è il contrario”, alza le braccia,  “sapremo nelle prossime ore se tanta fatica sarà stata sufficiente”. 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi