In Francia
Daoud, il grande algerino tra due fuochi e due fatwe, un alieno per i letterati italiani
Quando gli intellettuali occidentali decolonizzatori e à la page lo accusano di contrapporre un occidente libero, civile e democratico a un oriente sottomesso e shariaco si mostrano succubi di quell’ideologia multiculturalista che sega le gambe alla sedia dove tutti noi siamo seduti
Quando ci furono gli stupri di Colonia, Dacia Maraini disse: “Stento a credere che tra gli aggressori ci possano essere migranti e rifugiati, gente che ha alle spalle storie molto dolorose”. Vauro sul Fatto ci regalava uno dei suoi disegnini: “Le nostre donne ce le stupriamo noi”. In Francia un algerino sul Monde osò scrivere la verità: “Del rifugiato vediamo lo status, non la cultura. E l’accoglienza si limita a burocrazia e carità, senza tenere conto di pregiudizi culturali e trappole religiose. Nel mondo di Allah il sesso rappresenta la miseria più grande”.
Apriti cielo. Le Monde replica con sociologi, storici e antropologi che accusano l’algerino Kamel Daoud di “islamofobia”. Su Libération l’ineffabile Olivier Roy, in un articolo dal titolo “Colonia e il tartufo femminista”, lo accusa di stigmatizzare i musulmani: “Maschilismo e molestie esistono in tutto il mondo”. Sulla London Review of Books Daoud è reo di “stereotipi razzisti”. Daoud non è tipo da Strega e forse neanche da Goncourt, il blasone che si è aggiudicato con “Houris”, romanzo sulla morte e la resurrezione del “decennio nero” algerino. Le sue cronache sul settimanale Point, tradotte spesso dal Foglio, sono un riferimento, accompagnate da polemiche infiammabili. E Colonia non è il solo motivo che spiega perché Daoud è un alieno fra gli scrittori italiani.
Dopo il 7 ottobre, Daoud ha scritto una “lettera a un israeliano”: nessuna predica sulla “proporzionalità”, ma solo solidarietà. “La causa palestinese è stata appena talebanizzata”, ha scritto all’indomani dell’attacco di Hamas. Poi Daoud ha firmato la postfazione di “7 octobre. Un pogrom au XXI siècle”. Al Laboratoire de la République, think tank a Parigi, Daoud ha liquidato il woke come “pericoloso”. Ce n’era abbastanza per squalificarlo non dal Goncourt, ma dal consesso letterario.
Non capita tutti i giorni infatti, anzi non capita praticamente mai, che uno scrittore celebrato faccia quello che ha fatto lui, l’algerino preso fra due fuochi e due fatwe, islamista e occidentale. La prima emessa da imam radicali che hanno bollato Daoud come “apostata”, chiedendo la sua testa su una picca per la “guerra che conduce contro Allah”. Gli islamisti lo accusano di aver “venduto l’anima all’occidente”. I woke, lo stesso. Qualche giorno fa, Daoud ha attaccato le femministe silenti sulle iraniane e le afghane. “Le donne afghane non sono velate dagli ebrei. Preferiamo il decolonizzato e i decolonizzatori. In occidente, il neofemminismo ha individuato i suoi clienti elettorali”. Poi un’altra rubrica contro il nostro senso di colpa. “E’ vietato dire che l’occidente è il luogo dove si scappa da ingiustizia, dittatura, guerra e fame. Va di moda dire che l’occidente è colpevole di tutto”.
E quando l’occidente si ritira, subentra la barbarie. “Ci rallegriamo di una sconfitta dell’occidente, dimenticando le future decapitazioni”. E ancora. “Se l’occidente cade in ginocchio, dove andremo?”. Ha messo in guardia dall’islamizzazione strisciante. “L’islamismo in Europa si è sviluppato con una formidabile ingegneria, sa dove colpire, come far sentire le persone in colpa. E c’è motivo di temere l’emergere di un emirato nel cuore di un’Europa accecata dalla codardia”. Quando i tartufi, gli intellettuali occidentali decolonizzatori e à la page, accusano l’algerino di contrapporre un occidente libero, civile e democratico a un oriente sottomesso e shariaco si mostrano succubi di quell’ideologia multiculturalista che, relativizzando ed equiparando, sega le gambe alla sedia dove tutti noi siamo seduti.