Presidenziali americane
Il convitato di pietra delle elezioni Usa è il debito pubblico
Sia Harris che Trump promettono di alzare il deficit, ma la spesa per interessi è enorme e supera il budget della difesa. Un tema scivoloso per entrambi i candidati, ma che l'America sta già cominciando a pagare oggi
Quanto conta il debito pubblico nelle elezioni americane? “Meno di zero a quanto si vede dalla campagna elettorale. Sia Trump che Harris non ne parlano, ma temo che gli investitori prima o poi chiederanno il conto a chi dei due sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti”. Riccardo Trezzi, economista con esperienze in banche centrali come Federal Reserve e Bce, nonché consulente di alcuni fondi d’investimento internazionali, non si capacita di un fatto: “I rendimenti dei titoli decennali statunitensi – dice – sono saliti nelle ultime settimane al 4,5 per cento e potrebbero presto volare al 5 per cento, ma su questo c’è silenzio come se non fosse un problema reale. E non è così: l’America sta già pagando oggi un ammontare di interessi sul debito pubblico pari al 3 per cento del pil, cioè più grande del budget della difesa che è del 2,9 per cento. E’ un problema molto serio ma percepito poco o nulla dai cittadini”.
La differenza con l’Europa è evidente. Nel Vecchio Continente, e lo dimostra quello che si è verificato con il governo di Liz Truss nel Regno Unito, con le elezioni francesi e prima ancora con le crisi del debito greco e italiano, arriva un momento in cui l’allarme sul debito diventa una consapevolezza collettiva oltre che dei mercati finanziari. Poi, magari, le cose continuano a peggiorare negli stessi paesi come prevede una recente analisi di Bloomberg Economics, che vede il rapporto tra debito e pil arrivare nel 2050 al 150 per cento in Francia e quasi al 170 per cento in Italia, ma, intanto, i governi europei si sforzano di tenere la spesa pubblica sotto controllo e lo dicono pubblicamente rischiando l’impopolarità. In America non succede, perché? “Direi che esistono due ragioni – spiega Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos – Una è di tipo culturale e negli Stati Uniti sarebbe improponibile un approccio al discorso del debito con i toni austeri, quasi punitivi, con cui se ne parla in Europa. Di recente Elon Musk, che è al fianco di Donald Trump nella campagna elettorale, è stato l’unico ad affrontare la questione in un comizio dicendo che bisognerà tagliare la spesa di due trilioni di dollari. Ma lo ha fatto a modo suo, con uno stile da populista, della serie: tagliamo gli sprechi e cose del genere. Poi bisogna vedere quello che succederà se Trump viene eletto. La seconda ragione è di tipo economico. Gli americani sono più sensibili all’inflazione che al debito, anche se in qualche modo le due grandezze sono collegate. Se c’è un terreno scivoloso per i democratici è quello che durante l’amministrazione Biden l’economia è cresciuta ma il potere d’acquisto dei cittadini si è ridotto”.
In effetti, come ha fatto osservare anche un’analisi del Wall Street Journal, l’indice dei prezzi sul pil è salito a un tasso annuo del 4,5 per cento nei primi 15 trimestri della presidenza Biden, il ritmo più veloce dal primo mandato dell’ex presidente Ronald Reagan. E anche se l’inflazione è stata in buona parte domata dalla Fed con l’aumento dei tassi d’interesse, gli americani si sono male adattati al caro vita e adesso sperano di migliorare la propria condizione. “E’ questo il motivo per cui – prosegue Riccardo Trezzi – sia che vinca Trump sia che vinca Harris è previsto un considerevole incremento della spesa pubblica. Anche se nessuno dei due si sogna di spiegare che questo vuol dire fare aumentare ulteriormente il costo del debito”. In effetti, secondo un calcolo di Pictet, l’impatto del programma elettorale dei due candidati sul bilancio pubblico americano sarà di 3,5 trilioni di dollari nei prossimi 10 anni se vince Harris e di 7,5 milioni, più del doppio, se ha la meglio Trump. A quel punto il rapporto tra debito e pil negli Stati Uniti si troverà sulla strada per arrivare al 200 per cento nel 2050 come stima Bloomberg, rispetto al 120 per cento di oggi. “La differenza tra Harris e Trump è che la prima punta a finanziare la spesa pubblica tassando i super ricchi, in modo coerente con la tradizione dei democratici, e il secondo no – osserva Fugnoli –. Ma entrambi vogliono spendere, anche se non è affatto detto che una volta alla Casa Bianca mantengano tutte le promesse della campagna elettorale facendo lievitare a dismisura il rapporto debito-pil. D’altra parte, dimostrarsi fiscalmente responsabili fa perdere voti in America come in Europa anche se qui i campanelli dei mercati suonano più facilmente”.
Insomma, la differenza è che negli Stati Uniti non sentono la pressione dello spread, che in Europa misura la sostenibilità del debito pubblico dei singoli paesi? “Un tempo c’erano i bond vigilantes a svolgere questa funzione – ricorda Trezzi – cioè obbligazioni statali le cui oscillazioni dei rendimenti rappresentavano un termometro della fiducia degli investitori tenuto in gran considerazione dalla classa politica statunitense, poi il ruolo molto attivo della politica monetaria e della Fed ha reso il ricorso dello stato americano al mercato dei capitali molto più facile grazie a tassi d’interesse bassi, ma sono abbastanza convinto che oggi gli investitori dei treasury siano in stato d’allerta e che sono pronti farsi sentire se la nuova amministrazione non darà qualche dimostrazione di prudenza fiscale. Anche perché, forse si dimentica che l’aumento fuori controllo dei rendimenti dei titoli di stato mette a rischio i bilanci delle banche americane”.
Tutte cose vere, ma non sono quello che gli americani vogliono sentirsi raccontare. Anche perché la borsa di New York, per esempio, non sembra affatto spaventata dalle urne. Anzi. Il motivo potrebbe essere quello che spiega Baillie Gifford, una casa d’investimento scozzese nota per la sua indipendenza, in uno studio sul rapporto tra elezioni americane e mercato azionario. Ebbene, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il ritorno medio annuale dell’investimento in azioni durante una presidenza repubblicana è di circa il 5 per cento, durante una presidenza democratica è dell’11 per cento. Nell’anno successivo a una vittoria repubblicana il ritorno medio è del 3 per cento, dopo una vittoria democratica è del 15 per cento.