Il voto visto da Kyiv
L'eredità di Biden in Ucraina e l'America come nazione-rifugio
Dopo 987 giorni di guerra per gli ucraina il voto americano è l'attesa infinita di un'America che non sa più quanto è affidabile da alleato. E’ da almeno un anno che Volodymyr Zelensky deve sottomettere le sue esigenze di sopravvivenza alle priorità politiche dell’America
Washington, dalla nostra inviata. Gli ucraini hanno aspettato il voto americano con l’ansia di chi sa che in gioco c’è la sopravvivenza e con la calma di chi sa che oggi è uguale a ieri: sirene, missili russi, droni iraniani usati dai russi, un fronte di guerra lungo mille chilometri, funerali. Gli occidentali discutono del futuro della democrazia americana, si chiedono se le barriere di protezione del liberalismo possano sopravvivere a tanti movimenti eversivi messi assieme, e gli ucraini guardano attoniti: se ci date le armi per difenderci, ve la esportiamo un po’ noi, la democrazia. Il voto americano, in Ucraina, è durato un’eternità.
E’ da almeno un anno che Volodymyr Zelensky deve sottomettere le sue esigenze di sopravvivenza alle priorità politiche dell’America, e mentre Washington conta i voti, Kyiv conta i morti. Nataliya Gumenyuk scrive sul Guardian che gli americani non hanno ancora capito – dopo 987 giorni di guerra – che l’Ucraina non combatte per se stessa, combatte per la libertà di tutti. Ma nella campagna elettorale più buia di sempre, di Ucraina se n’è parlato sempre meno.
All’ambasciata italiana a Washington è stata inaugurata alla fine di ottobre la mostra “Washington-Kyiv e ritorno”, in occasione dell’incontro con il ministro delle Finanze ucraino, Serhii Marchenko, per i lavori di preparazione alla Conferenza per la ricostruzione: le fotografie di Massimo Listri, che erano già state esposte a Palazzo Vecchio a Firenze nel febbraio scorso, ora sono nell’atrio luminoso dell’ambasciata, maestose e strazianti, testimonianza della cultura e dell’architettura ucraine sotto attacco. L’Italia ospiterà la Conferenza per la ricostruzione nel luglio del 2025, la bandiera ucraina sventola sull’ambasciata come simbolo di solidarietà “finché sarà necessario”, ha detto l’ambasciatrice Mariangela Zappia, ma l’estate prossima sembra lontanissima, c’è l’inverno da superare, gli ucraini chiedono i mezzi per arrivare fino ad allora e soprattutto di non essere dimenticati. Oltre alle armi e ai permessi per usarle, manca ora anche l’attenzione, nell’ombra prosperano i sentimenti antiucraini e la fatica.
“Non so come facciano alcuni ucraini, in Ucraina e in America, a non essere assolutamente terrorizzati da Donald Trump”, dice Marci Shore, professoressa di Storia a Yale, a Toronto in questo anno accademico, assieme a suo marito, lo storico Timothy Snyder: “Da molto tempo Trump subisce il controllo e l’influenza di Vladimir Putin, vuoi perché Putin ha del materiale compromettente su di lui, o perché Trump ha un debito con Putin per l’aiuto ricevuto nella vittoria del 2016, o perché l’entourage di Trump è stato corrotto da Putin o perché Trump idolatra Putin come fanno i narcisisti patologici o una combinazione di tutte queste cose”. Eppure molti ucraini hanno sviluppato una certa impermeabilità alle brutture di Trump, un po’ perché la scelta elettorale americana è fuori dal loro controllo e sono pragmatici abbastanza da aver imparato a fare i conti con chi c’è, e un po’ perché sono delusi dall’Amministrazione Biden. In gioco, per loro, e anche per il resto del mondo, oltre alla tenuta istituzionale americana dopo il voto, c’è l’affidabilità dell’America come alleato duraturo. Una cosa ben più profonda, che lambisce entrambi i partiti americani, tant’è vero che nella comunità ucraino-americana c’è chi ha votato per Trump. Sembra impossibile, e gli ucraini arrivati dopo l’invasione totale russa del 2022 non si capacitano del fatto che chi vive in America dalla caduta del Muro non si renda conto della costante umiliazione che i trumpiani impongono alla volontà democratica dell’Ucraina. Ma i “vecchi” dicono che Barack Obama fu il primo a sottostimare l’aggressione russa e l’annessione della Crimea nel 2014, il precedente che ha convinto Putin che l’occidente non avrebbe difeso l’Ucraina, e rivendicano il fatto di essere conservatori anti sovietici, pure se hanno in mente il Partito repubblicano di Ronald Reagan, non quello di adesso. “Gli ucraini non hanno torto quando dicono di essere delusi da Joe Biden – dice Shore – Di certo il presidente uscente comprende la natura della minaccia russa ed è solidamente dalla parte dell’Ucraina, ma è stato anche dolorosamente cauto e lento, trattenendo le armi da fornire e cercando di non mettersi in confronto diretto con Putin, non perché abbia qualche considerazione del presidente russo, ma perché teme che Putin possa usare le armi nucleari. Le restrizioni sull’utilizzo delle armi americane sul territorio russo contro obiettivi militari russi è stata mortifera”. Shore riprende un articolo che ha pubblicato di recente in cui racconta la trasformazione delle idee di Biden durante la sua lunga carriera politica, ma anche l’effetto di voler sempre evitare ogni scelta radicale e l’incapacità di cambiare paradigma in Ucraina, “anche molto dopo che il paradigma esistente si è mostrato perverso e mortifero”. L’Ucraina sperava che, una volta ritiratosi dalla corsa presidenziale, Biden si sentisse libero di fare tutto il necessario per ancorare l’Ucraina all’occidente – con il processo di adesione alla Nato – e per consolidare la strategia ucraina di colpire i russi prima che lancino gli attacchi, nelle loro basi logistiche e negli arsenali. Ma non è andata così, il tour del “Piano per la vittoria” di Zelensky non ha mosso granché, anche se i piani di sostegno già in essere in sede G7 sono stati rafforzati. Le attese nei confronti di Kamala Harris sono andate di pari passo, prima del voto Shore si definiva “cautamente ottimista sul fatto che possa essere più decisa” di Biden.
La “cautela” comincia a essere insostenibile, spunta in ogni conversazione americana sull’Ucraina e stride oscenamente con quel che fa Putin, ogni giorno, in costante escalation, contro l’Ucraina. Tra le varie alienazioni che si sono accumulate nella società statunitense, persiste l’idea che sia comunque un posto sicuro, in cui milioni di europei dell’est hanno trovato rifugio e protezione. E’ questa l’immagine che si sta offuscando, tra delusione, affaticamento, dubbi. Shore dice che in realtà l’idealizzazione dell’America ha già i suoi limiti storici, ricorda alcuni dettagli come il fatto che in alcuni stati americani le leggi contro la sodomia sono state in vigore fino al 2003 e le discriminazioni ancora esistenti, ma conviene sul fatto che la nazione-rifugio è stata una protezione non soltanto ideale per molti europei: “I miei amici che vengono dall’Europa dell’est che sono cresciuti sotto la repressione comunista e per i quali davvero gli Stati Uniti sono stati l’antitesi al blocco sovietico, restano i più attaccati all’ideale americano”. Shore cita quel che Alexander Vindman, colonnello in pensione che è stato direttore del dipartimento europeo del Consiglio per la sicurezza nazionale dell’Amministrazione Trump, disse testimoniando al Congresso durante l’impeachment di Trump, quello che riguarda l’Ucraina: “Ho detto a mio padre di non preoccuparsi, andrà tutto bene se dirò la verità”. Vindman era presente alla telefonata in cui Trump chiese a Zelensky di fornire materiale compromettente sui Biden in cambio del rinnovo degli aiuti americani all’Ucraina. “Mentre lo ascoltavo – dice Shore – ho pensato: soltanto un rifugiato scappato dall’Unione sovietica può avere questa fiducia granitica nell’America”. Vindman è nato in Ucraina, suo fratello gemello, Eugene, che ha fatto come lui la carriera militare e ha poi lavorato come avvocato al Consiglio nazionale per la sicurezza, si è candidato al Congresso nel settimo distretto della Virginia, un seggio in bilico che farà la differenza nel paese che verrà.
Cosa c'è in gioco