L'editoriale dell'elefantino
Trump ha preso dal Cav., sì, ma il Cav. era il suo opposto
Anche Berlusconi non ha mai davvero riconosciuto la legittimità delle sue sconfitte e ha parlato di brogli elettorali e di colpi di stato a ripetizione, alimentando il mito della sua invincibilità e recitando la parte della vittima con una strizzatina d’occhio. Solo che Berlusconi era un uomo mite, autoironico, rispettoso delle regole istituzionali, che ha cambiato innovandole nel senso dell’alternanza
Trump ha preso tutto da Berlusconi, suo maestro e predecessore, com’è noto: il “nuovo, grande miracolo italiano”, di cui Make America Great Again è un calco; l’esibizione televisiva del denaro e del successo tra il pubblico come benedizione o unzione; il rapporto personale con il popolo nell’estraneità all’establishment e attraverso la ostilità all’outsider delle élite tradizionali; la politica come show onirico in forme inedite e inaudite di esagerazione iperbolica del concetto di libertà; un uso gadgettistico dei simboli e del corpo; il pragmatismo dell’imprenditore o the art of the deal, altro calco, e molto ancora. Anche Berlusconi non ha mai davvero riconosciuto la legittimità delle sue sconfitte e ha parlato di brogli elettorali e di colpi di stato a ripetizione, alimentando il mito della sua invincibilità e recitando la parte della vittima con una strizzatina d’occhio. Solo che Berlusconi era un uomo mite, autoironico, rispettoso delle regole istituzionali, che ha cambiato innovandole nel senso dell’alternanza, e nel suo sangue scorreva il sereno cinismo di un italiano di cultura machiavellica e guicciardiniana, cultore del privato e in questo senso un vero liberale, in realtà rispettoso della democrazia politica, pronto allo spirito di avventura e a torsioni megalomaniache del suo rapporto con la realtà, ma letteralmente incapace di una rivolta populista contro lo stato e la legge. Il Cav. disponeva di un suo profilo epico, eroico, leggendario, che resta oltre la sua scomparsa, però era il primo a non crederci, a considerarlo un puro prodotto della comunicazione e uno strumento di affermazione. Qui stava la sua vera grandezza.
La minacciosa dismisura di Trump è tutta un’altra cosa. La sua epopea suprematista è capace di vero odio, è misogina e razzista, offende le minoranze e i deboli, chiama alle armi rancori e frustrazioni sociali del ceto medio e di un pezzo di società piagnona e isterica, ha come scopo ultimo la glorificazione personale del proprio eroismo, sfrutta la paura e la diffonde, si avvantaggia della parte in ombra della rivoluzione digitale, del suo angolo dark. Bisogna prendere atto, nonostante tutto questo, che il profilo epico di Trump è tragicamente più consistente di quello del suo modello italiano. Più consistenti i poteri che ha esercitato e che cerca di riconquistare con un’impresa inedita nella storia americana, il secondo mandato come rivincita su uno scippo elettorale (inesistente ma denunciato per vero con tenacia diabolica), quattro anni dopo. Più ampio, mondiale, universale, lo spettro della leggenda, della narrazione. Che una o due contee della Pennsylvania possano decidere come e dove andranno a finire gli equilibri già così precari del nostro mondo è uno spavento senza fine. Che questo Gilgamesh venuto dal Queens possa erigere una immensa cinta muraria intorno agli Stati Uniti, che sarebbero per tradizione una luminosa città sulla collina, è più che impressionante, rivoltante. E i guai che deriverebbero da una sua rielezione, dall’imposizione schiacciante della sua mole massiccia e buffa, ma ricattatoria, sul profilo modesto e delicato di Kamala Harris, sono infiniti. Pari, per capire il busillis di queste elezioni che ora il lettore può giudicare dai primi risultati, ai guai che deriverebbero dalla sua sconfitta, dalla sua ennesima vittoria mutilata, da una nuova mobilitazione della frustrazione epica e cornuta. Va bene che scriviamo sui giornali, ma preghiamo che Dio ci risparmi tempi interessanti.