il colloquio

Trump, Harris e una certezza: nessuno ha aiutato Israele quanto Biden

Micol Flammini

Il capo uscente della Casa Bianca può essere considerato il presidente più sionista della storia americana. Le differenze con Trump nel rapporto con lo stato ebraico, l'incontro con Golda Meir e un rapporto tra due paesi indissolubili. Intervista a Asaf Shariv 

Cinque canali televisivi israeliani hanno organizzato una serata speciale per la nottata elettorale, “forse soltanto l’Ucraina, più di Israele, segue il voto americano con tanta apprensione”, dice al Foglio Asaf Shariv, ex console israeliano a New York, collaboratore dell’ex premier israeliano Ehud Barak e allievo di Ariel Sharon. I legami tra Israele e Stati Uniti sono fitti e vitali, i due paesi si somigliano tanto da non capirsi, al punto che a ogni elezione americana si pensa, si teme, si spera che i rapporti  possano subire una svolta. Cambiano i personaggi, le relazioni tra primi ministri e presidenti, ma secondo Shariv, lo schema di fondo dell’alleanza non cambia e non muterà nemmeno questa volta. Eppure con Joe Biden che esce di scena si chiude un’epoca, quella che Shariv definisce “del presidente più sionista della storia americana, almeno da quando io ho memoria”. La definizione sorprende, se si pensa alle critiche, alle scaramucce, ai richiami, o se si ragiona sul governo israeliano in cui metà dei ministri ha detto di preferire Donald Trump a Kamala Harris, o addirittura ha espresso la sua preferenza per Trump quando il suo sfidante era ancora Biden, prima dello sciagurato dibattito del luglio scorso e del ritiro del presidente dalla corsa elettorale. Nulla di strano, dice Shariv, gli israeliani, con una politica sempre più conservatrice, hanno sempre avuto una preferenza per i repubblicani, eppure senza Biden si perde qualcosa, qualcosa di più profondo delle dinamiche delle guerre e dell’alleanza. Ancora prima di diventare presidente, Biden ha raccontato più e più volte un aneddoto che spiega bene il suo rapporto con lo stato ebraico, la sua comprensione della sua posizione nel mondo. Shariv ripercorre quel ricordo, sentito a ripetizione: “Biden racconta spesso di quando negli anni Settanta era arrivato in Israele per incontrare Golda Meir”, lei era una premier con molti primati appuntati sulla sua carriera già lunga, lui era un giovane senatore con una carriera appena iniziata e una storia di primati tutta da scrivere. “Alla fine dell’incontro, i due erano spalla a spalla, Meir sussurra a Biden, senza guardarlo: ‘Senatore perché è così preoccupato?’”. Doveva ancora esserci la guerra dello Yom Kippur, quando il rapporto di alleanza tra i due paesi venne testato di nuovo e di nuovo superò la prova. “Meir gli disse: ‘Senatore non ci preoccupiamo. Noi israeliani abbiamo un’arma segreta: non abbiamo nessun altro posto dove andare’”. 

Per Shariv l’episodio aiuta a comprendere il rapporto tra Biden e Israele e per il presidente deve essere stato uno di quei momenti indimenticabili, in cui la percezione della realtà cambia, in cui un’idea diventa reale e, in quell’istante, ha capito il senso del sostegno americano a Israele. “Durante la sua carriera da senatore  – ricorda Shariv – Biden ha criticato spesso Israele, ma ha sempre avuto un grande interesse. Quando è diventato vicepresidente, ha manifestato la sua contrarietà per la politica in Cisgiordania, ma è rimasto consapevole delle necessità di Israele in fatto di sicurezza. Quando poi è diventato presidente, si sapeva che non avrebbe avuto un buon rapporto con Benjamin Netanyahu, soprattutto dopo la riforma della giustizia. Biden ha fatto le sue critiche, ma il 7 ottobre ha lasciato perdere tutto, è volato in Israele per fare un discorso potente”. Sono pochi i momenti della storia in cui alle parole corrispondono i fatti. A eventi dolorosi seguono spesso bellissimi discorsi, promesse, frasi che rimangono leggendarie e azioni tanto dimostrative quanto deboli. “Si sa, le parole sono a buon mercato, ma Biden dopo il 7 ottobre le ha accompagnate ai fatti, e quelli hanno sempre un costo. Ha detto che non avrebbe mai fatto mancare il sostegno a Israele e così è stato, è andato avanti nonostante le critiche del suo partito, nonostante il voto negli Stati Uniti. Lo ha fatto unicamente perché credeva che sostenere Israele fosse la cosa giusta”, l’unica da fare. Per Shariv che conosce bene le dinamiche americane, Biden ha capito di essersi trovato in un momento storico, decisivo, per lui il sostegno a Israele nonostante tutto non è una questione politica, “è qualcosa in cui crede. George W. Bush aveva diviso la storia in bene e male, Biden si è trovato di fronte a un momento simile dal punto di vista storico”, ma tale divisione è stata più complicata, tra il bianco e nero ha trovato molto grigio, ma è andato avanti. 


Biden è raffigurato sui muri di Tel Aviv con il costume di Captain America, molti lo ringraziano, alcuni sospirano pensando che Israele meriterebbe un leader come lui. Altrettanti però credono non abbia fatto abbastanza, che non sia pronto a portare avanti il sostegno a Israele costi quel che costi e pensano che Donald Trump alla presidenza avrebbe fatto di meglio, avrebbe fatto di più. “Trump ha compiuto molte azioni diplomaticamente forti a favore di Israele, ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme, riconosciuto le Alture del Golan, sostenuto gli Accordi di Abramo. Biden non ha revocato nessuna di queste decisioni. Va però notata una differenza: Trump lo ha fatto perché è convinto che aiutando Israele in questo modo avvantaggi la sua visione politica per gli Stati Uniti, su Israele prende decisioni che ritiene giuste per la politica americana. Non si può certo dire che non sia un amico di Israele, ma è un’amicizia diversa: tutto quello che Biden ha fatto finora lo ha fatto perché ci credeva”. Trump non aveva mai messo piede in Israele prima di diventare presidente, il suo interesse per lo stato ebraico è legato ai piani della politica americana in medio oriente e agli interessi di alcuni funzionari che hanno fatto parte della sua Amministrazione, come il genero Kushner, e i rapporti stretti tra alcuni repubblicani e Ron Dermer, amico di Netanyahu, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti e adesso ministro per gli Affari strategici. Biden non ha nulla di tutto questo alle spalle, non ha legami, ha un’idea, come dice Shariv: “Nessuno negli Stati Uniti ha mai dimostrato il suo stesso interesse, in parte Bill Clinton e per alcune ragioni Bush. Ed è difficile pensare che in futuro qualcuno possa avere lo stesso approccio”. 


Per Israele, l’America c’è sempre stata, anche durante i periodi di relazioni più complicate tra presidenti e primi ministri, anche ai tempi in cui Barack Obama, che con Netanyahu aveva un pessimo rapporto, aiutò a sedare l’assalto all’ambasciata israeliana al Cairo. “Sono paesi connessi, nulla può cambiare. Ma Joe Biden rimane il presidente più sionista della storia degli Stati Uniti”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)