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Girotondo

Dazi, clima, guerra. Una mappa per orientarsi nel mondo di Trump

Lo spettro del protezionismo, i trattati a rischio, l’isolamento internazionale. Un girotondo di opinioni per capire dove trovare gli anticorpi contro The Donald. Per l’Europa è tempo di svegliarsi. E per noi?

Dazi e altri guai. Trump mette a dura prova il nostro ottimismo

Possiamo essere ottimisti anche dopo la marcia trionfale di Donald Trump, tutti noi che non lo avremmo mai votato? Un ottimismo della ragione, perché se fosse per la nostra volontà non sarebbe entrato alla Casa Bianca nemmeno nel gennaio 2017. Trump aumenterà dazi e tariffe, sarà un guaio anche per l’Italia, ma deve stare attento a non rinfocolare quella inflazione che in parte lo ha fatto vincere. Ha detto a Robert Kennedy Jr. prossimo segretario alla Salute: “Lasciaci il petrolio, Bob”. Eppure ha incoronato come eroe americano Elon Musk, che con la Tesla ha aperto le porte all’auto elettrica in America. E’ stato lui, dieci anni fa, non i cinesi. Con Pechino, Trump sarà duro in economia, ma forse molle su Taiwan allontanando un confronto militare. Temiamo che Putin scorrazzerà per le pianure dell’est, però non possiamo lasciare la difesa solo in mano americane; l’Ue lo ha già detto, adesso deve farlo. E sovranisti, populisti, nazionalisti che oggi festeggiano faranno pagare ai loro elettori prezzi salati. Il voto ha concentrato in mano al trumpismo un enorme potere (investitura popolare, Congresso, Corte suprema), tuttavia la partita per il legislativo si giocherà tra due anni nelle elezioni di Mid Term. The Donald non ha insultato, una volta tanto, i suoi nemici politici. Buon segno? Speriamo di sì, ma in questo caso il nostro è puro ottimismo della volontà.
Stefano Cingolani


 

“Get woke-go broke”. La sconfitta di Harris chiude un’epoca

Amaro risveglio per i risvegliati. Con la rielezione di Donald Trump e il fallimento del progetto Kamala dovrebbero avere registrato che, se non già morto, il woke è in agonia. E attende giusto un ultimo turnover –la probabile caduta, nel 2025, del leader più woke del mondo, il canadese Justin Trudeau – per il definitivo hangover, dopo una sbornia durata più di un decennio. I segnali c’erano tutti, qualcuno aveva dato l’allarme per tempo. Hillary Clinton ad esempio, con femminile buon senso: se continuiamo così andiamo a sbattere – Financial Times, 2022. Get woke-go broke. Poche correzioni di rotta in corsa e in extremis, ma – accidenti – solo nell’aprile scorso Joe Biden era tornato alla carica con la sua fissa obamiana dei trans nei bagni, negli spogliatoi, negli sport femminili, a scuola (riforma del titolo IX of The Education Amendments Act, poi bloccata dalla Corte suprema). Per dirla più storicamente: forse il 5 novembre 2024 si è chiuso il ciclo del ’68 con tutti i suoi primaverili slanci di libertà, dalla morte della famiglia all’autodeterminazione senza limiti. E il woke è il suo liquidatore. Il clima si fa più rigido e occorre attrezzarsi.
Marina Terragni


 

Vince il richiamo della foresta dell’individualismo al potere

Richiamare Trump vuol dire che, dopo la prova-bucato del primo mandato e dopo averlo umiliato preferendogli il pacato riordinatore Biden, infine ha prevalso il richiamo della foresta: l’America agli americani, ovvero le chiavi del paese in tasca al personaggio che incarna nel modo più selvaggio l’individualismo al potere. Finiscono in soffitta il politicamente corretto, certe ipocrisie perbeniste, le tentazioni di dare una confezione morale al ripensamento di una nazione che ha perso i suoi primati nel mondo, soprattutto preoccupata di smarrire l’accesso al benessere che apparteneva al suo patto sociale, insidiato com’è dagli estranei alle porte, indebolito da rigurgiti nostalgici, ingiallito nell’incapacità di rinnovarsi. Ha prevalso il desiderio di estremizzare il disagio e di evitare i cerimoniali della politica: che lo si consideri un supereroe o il male minore, meglio Trump. Un capolavoro di egoismo: perché ora è il mondo a dover trovare gli espedienti e le modalità di relazione col grande solista pazzo. Come prenderlo? Assecondandolo e giocando con le sue regole? Meglio che il caso sia presto allo studio degli strateghi. La giostra riparte. 
Stefano Pistolini


 

Brindo a Trump perché amo la libertà di essere estremisti

Brindo a Donald Trump e mi dispiace farlo perché sono un non votante, un non militante, e detesto l’enfasi. Per capirci: mi avevano invitato a un raduno di trumpiani lucani e ho lasciato perdere, trovo grottesche queste cose. E però brindo. Perché la sinistra americana e mondiale ha fatto della mia normalità un estremismo. E di questo estremismo una colpa da punire. Instagram due mesi fa mi ha bloccato il profilo (non me l’ha ancora restituito) per avere scritto “gelato al finocchio” sotto la foto di un gelato al finocchio. Mentre su X posso postare perfino quadri con donne nude, quelle che piacciono a noi uomini normali. Per la sinistra americana e mondiale è un estremismo essere un maschio bianco e non pentirsene, ossia manifestandosi anti femminista e anti immigrazionista. E’ un estremismo perfino la mia macchina diesel, il motore normale di chi vive in provincia. Brindo a Donald Trump perché amo la libertà di essere estremisti, di essere normali, di essere qualsiasi cosa.
Camillo Langone


 

Il vero dramma è per la società americana, che ne esce lacerata

Trump ha stravinto. Risultato sorprendente? Forse sì. Si tratta di una catastrofe? Vedremo. Lo sarà sicuramente, specialmente per noi europei, se l’uomo dovesse mettere in pratica quanto ha promesso in campagna elettorale. Ucraina, politica economica, immigrazione: tutti temi sui quali, per quanto in modo confuso e risentito, nelle settimane scorse ha lanciato una serie di messaggi quanto meno preoccupanti. Cederà alle richieste di Putin sull’Ucraina? Metterà in atto una politica economica protezionista? Non possiamo dirlo adesso. Auguriamoci semplicemente, lo ripeto, che Trump non mantenga le sue promesse elettorali. Quanto agli americani, forse ci guadagneranno qualcosa in termini di riduzione delle tasse, non credo che vedranno molti cambiamenti in tema di immigrazione, ma di certo dovranno fare i conti con le lacerazioni  profonde che questa campagna elettorale ha fatto venire a galla nella loro società. Questa sì una catastrofe certa, che dovrebbe impegnare a fondo sia le élite culturali repubblicane che quelle democratiche. Mi rifiuto di pensare che le prime siano totalmente appiattite sul trumpismo; quanto alle seconde, spero che facciano tesoro della batosta elettorale per ripensare tutto il ciarpame woke che hanno prodotto in questi anni.
Sergio Belardinelli


 

E ora? Ora scopriamo il sollievo della rassegnazione

Sarà che ci siamo già passati nel 2016; ma questa seconda vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca mi ha fatto meno effetto della prima – pur essendo sicuramente ben più tragica nelle sue conseguenze. Ma sarà l’esperienza o la maturità (nel 2016 avevo 32 anni mentre ora sono 40), so qual è la risposta alla smarrita e inquieta domanda che noi persone di senno ci poniamo anche stavolta: “E adesso?”. E adesso, come direbbe Nicole Kidman nel finale di quel capolavoro che è “Eyes Wide Shut” di Stanley Kubrick, “c’è una cosa molto importante che noi dobbiamo fare il prima possibile. Scopare”. Ritirarsi nel privato: ecco la risposta. Perché il privato, no, non è politico fortunatamente; e lì possiamo sgraffignare ancora un po’ di piacere (buon vino, cibo squisito, baci, carezze, luci, colori, musica) intanto che il mondo va a rotoli, come ha sempre fatto del resto. Non possiamo farci niente, siamo impotenti di fronte alla deriva; godiamoci l’irresponsabilità e scopriamo il sollievo della rassegnazione. 
Saverio Raimondo


 

Preparate i popcorn e guardatevi i film su Trump e Vance

Campagna elettorale conclusa con successo, con l’orecchio sfiorato dal proiettile per ispirare ritratti alla Van Gogh. Trump l’ha rifatto. Ha già pronto anche il film, per mostrare alle future generazioni come  si diventa presidente. Gli ha fatto il favore – non proprio necessario – Ali Abbasi, nato a Teheran e naturalizzato danese. “The Apprentice” avrebbe dovuto smascherare gli intrallazzi del giovane Trump. Il Trump adulto minacciò querele a Cannes, poi capì che era tutta campagna elettorale. I suoi fan della prima ora non vedevano al cinema film diretti da registi con nomi esotici. Ma c’erano gli “indipendenti” da conquistare. Ha un film suo – tratto dal suo memoir “Hillbilly Elegy: memorie di una famiglia e una cultura in crisi” – anche il vice presidente J. D. Vance. Lo ha diretto Ron Howard, la famiglia era disastrata tra alcolismo, mamme inaffidabili, per fortuna la bisbetica nonna conservava lo spirito dei pionieri. Non sembrava il genere di film adatto al regista, ex Richie Cunningham di “Happy Days”, classe 1954. Ora non ha più i capelli rossi, e neppure l’ottimismo. Era un campanello d’allarme e non ce ne siamo accorti.
Mariarosa Mancuso

 


 

Una sveglia per gli europei (ma i segnali non sono incoraggianti)

La larga vittoria di Trump fa definitivamente a pezzi la gioiosa alleanza tra élite e democratici occidentali. E’ chiaro che dietro ci sono anche mutamenti strutturali del sapere e della sua estrema specializzazione ma per le vecchie oligarchie del pensiero è comunque suonata la campana dell’ultimissimo giro. Non dovrebbe essere un guaio per un elettore che si definisce democratico e quindi non dovrebbe essere legato in vita e in morte a immutabili geometrie verticali ma purtroppo non siamo (ancora) attrezzati a pensare diversamente. Noi europei abbiamo sempre considerato le nostre come società corte (“la coesione”) e quando invece l’economia, la demografia e gli stessi mutamenti delle identità culturali ce le hanno allungate siamo andati in tilt. Abbiamo chiamato alla resistenza contro il populismo ma le masse non si sono strette a coorte. Anzi. Ora in teoria saremmo costretti a darci una mossa ma onestamente guardandomi in giro non trovo segnali che mi rincuorino.
Dario Di Vico



Continuità sull’energia, ma non sul clima

Dopo il presidente americano più sensibile di sempre alla questione climatica, alla Casa Bianca tornerà quello più indifferente. Con quali conseguenze? E’ difficile dirlo perché sul terreno dell’ambiente si giocano tre partite parallele: una è quella della retorica, dove ovviamente Donald Trump userà parole incendiarie e gli attivisti verdi torneranno a dare un volto al loro nemico. La seconda è sulle politiche energetiche americane. Qui c’è più continuità di quanto si possa credere: tra il 2016 e il 2020 le rinnovabili non hanno smesso di crescere sotto Trump e tra il 2020 e il 2024 il settore petrolifero ha fatto numeri da record sotto Biden. Il presidente uscente ha fatto arrabbiare i produttori vietando la costruzione di nuovi treni di liquefazione per il gas oltre a quelli già programmati: Trump si è scagliato contro questo ordine ma è tutto da vedere se manterrà l’impegno, visto che probabilmente ciò farebbe crescere i prezzi domestici del gas, esponendoli maggiormente ai mercati globali. E’ inoltre possibile che la Casa Bianca intervenga sull’Inflation Reduction Act, annacquando gli incentivi alle rinnovabili e alle auto elettriche ma mantenendo, forse potenziando, quelli per la produzione delle materie prime critiche e forse riducendo gli oneri burocratici per i nuovi investimenti. Dove invece potrebbero esserci pesanti ripercussioni è in sede internazionale: Trump certamente farà venire meno il supporto americano agli impegni climatici. La sua idea, che non è troppo distante da quello che è stato il mainstream a Washington fino a pochi anni fa, è che gli Stati Uniti non possono accettare alcun vincolo esterno alla loro politica energetica. Questo certamente indebolirà il quadro di Parigi, che si fonda proprio su uno sforzo collettivo e concertato. L’Europa potrebbe dunque trovarsi spiazzata, perché si è auto-vincolata a obiettivi ambiziosi su emissioni, rinnovabili e auto elettriche. La presidenza Trump potrebbe offrire a Bruxelles il pretesto per una revisione critica delle sue stesse politiche, non tanto per metterne in discussione gli obiettivi, quanto per rivedere i singoli strumenti. Di certo uno scarto isolazionista a Washington renderà più ardua la neutralità climatica nel 2050: e se la politica farà un passo indietro, il taglio delle emissioni dipenderà soprattutto dall’innovazione tecnologica e dallo sviluppo di fonti pulite e competitive.
Carlo Stagnaro


 

Meno drammatizzazione, please. L’America è più grande di Trump

Sento già gli stessi discorsi del 2001, perché qui ci siamo già passati prima degli americani, con la seconda vittoria di Berlusconi. Anche quella a forma di vendetta montecristica. La prima fu sorpresa, sgomento, follia, quasi uno scherzo, si saranno sbagliati gli elettori dai. La seconda fu tragedia massima, apocalisse, catastrofe, moriremo tutti, basta, scappo dall’Italia (puntuale l’amico di New York mi dice che ora vuole andarsene). Trump e il nostro Cav. hanno poco e niente in comune. Ma antitrumpismo e antiberlusconismo si somigliano sempre. La drammatizzazione della sconfitta elettorale, incolpando qui magari l’americano buzzurro che si informa su social e podcast complottisti e non sul pregiatissimo Nyt è sempre il primo passo per una prossima batosta. Ho sentito in tv Claire McCaskill, senatrice dem del Missouri, dire “prima di tutto dovremmo riconoscere che Donald Trump conosce il nostro paese molto meglio di noi”. Che mi pare invece una sintesi felice, un’ottima premessa per un’analisi della sconfitta. Perché l’America di Trump non è un’altra America, irriconoscibile, tanto meno “fascista”, come già dice qualche scrittore italiano. Forse non mi piace, ma di sicuro non mi fa paura. L’America è più grande di Trump. E sulla paura sono conservatore e abitudinario, resto sui grandi classici, la Russia, l’Iran, la Corea del nord, Hamas, Hezbollah, eccetera.  
Andrea Minuz


 

Dazi e decarbonizzazione, le incognite che ci preoccupano 

Questi sono i giorni in cui distinguere la propaganda, i desiderata e quel che effettivamente accadrà risulta davvero un gioco d’azzardo. Le aspettative del tessuto industriale di Vicenza, quello che, pro capite, esporta di più in Italia, ondeggia tra speranza e preoccupazione forte. Da un lato, quello che riguarda le forniture d’energia in particolare, ci si aspetta un intervento che conduca alla fine della guerra in Ucraina, anche se non è dato sapersi verso quale conclusione. E questo è tutt’altro che cosa secondaria. Il pericolo vero è un inasprimento grave del protezionismo. L’Italia sta in piedi, pur traballando, solo grazie all’export e gli Stati Uniti sono il nostro mercato diretto numero 2 in assoluto (e se contiamo anche l’export indiretto, siamo ampiamente al primo posto). I dazi applicati alle vendite negli Stati Uniti, paese ricco, grande, ancora in crescita, sarebbero un colpo davvero pesante, specie dopo due anni in cui la produzione industriale  è  ferma. Poiché i prodotti europei restano spesso tecnologicamente superiori a quelli americani, ci auguriamo che i dazi li riservino prioritariamente alla Cina e che con noi continuino a lavorare. Resta il dubbio su quale politica ambientale seguirà Trump perché, in occasione della precedente presidenza, la prima cosa che fece fu bocciare tutte le proposte ecologiste di decarbonizzazione.
Laura Dalla Vecchia (presidente Confindustria Vicenza)

 


 

Ammettere la sconfitta del progressismo e ripartire dall’Ue

La vittoria di Trump è una sorpresa relativa, fatta di tanti elementi come il personaggio e la realizzazione che le persone diverse, “accese”, piacciono anche quando sono squilibrate, perché mostrano che il diverso è possibile, o le debolezze della sua avversaria, di cui è difficile capire il pensiero. Ma hanno contato anche le contraddizioni proprie della nuova modernità in cui viviamo: il peso degli anziani e la relativa emarginazione dei giovani; la trasformazione dell’istruzione di massa da ascensore a filtro sociale; il nuovo ruolo delle donne e il disagio di una parte importante del mondo maschile, specie di quello non istruito; la reazione di una parte della popolazione al tramonto del secolo americano o di quella religiosa ai mutamenti radicali della famiglia, all’aborto; la pressione delle migrazioni clandestine, ecc. Come diceva mia madre, però, è dai propri errori e dai propri limiti, e da quello che possiamo fare per correggerli, che bisogna partire. E qui le cose sono semplici: occorre prendere atto che il discorso “corrente” del centrosinistra progressista dei paesi avanzati è morto perché incapace di parlare con la realtà odierna, cioè muto di fronte alle sue trasformazioni e reso falso da esse. La nostra priorità è quindi l’elaborazione di un nuovo discorso basato sull’analisi della nuova realtà e la scelta di uno strumento politico cui affidare il nostro futuro, sulla base di questo nuovo discorso. L’Unione europea, posta oggi di fronte a una grande sfida, è la soluzione ideale, per ragioni evidenti anche solo in termini di dimensioni in un mondo popolato da giganti. Per fortuna puntare su di essa non è affatto in contraddizione, anzi, col fare di tutto per rendere migliore la nostra Italia, che nel caso peggiore sarà l’unico strumento cui potremo affidarci.
Andrea Graziosi


 

Per l’Italia urge costruire un blocco europeo anti protezionista

Donald Trump, da presidente, attuerà effettivamente la politica protezionista basata su dazi colossali nei confronti di tutti i concorrenti? O qualche esperto lo convincerà che dazio chiama dazio e che la conseguenza è un restringimento del mercato dal quale nessuno ha da guadagnare? Resta, forse, uno spazio di negoziato, ma per gestirlo in modo efficace servirebbe una forte intesa tra i paesi europei, che questa volta sono indiscutibilmente sulla stessa barca. Chi pecora si fa… Senza una capacità di reazione l’Europa rischia di trovarsi schiacciata tra l’espansionismo commerciale cinese e il protezionismo americano, un nuovo pericolo che si aggiunge ai molti altri già incombenti. Per l’Italia in particolare, che ha il suo punto di forza nelle esportazioni, l’avvio di una spirale protezionistica sarebbe particolarmente deleterio, il che dovrebbe imporre al nostro governo, forte della stabilità di cui gode a differenza di quelli degli altri maggiori stati membri, di lavorare senza preclusioni alla costruzione di un fronte europeo anti protezionista, con buona pace del nostro ministro dell’Agricoltura.
Sergio Soave


 

Dal protezionismo ideologico di Biden a quello pragmatico di Trump

Il futuro dell’economia globale sta nel trovare nuovi accordi tra le maggiori aree economiche, e in particolare tra paesi avanzati e paesi cosiddetti emergenti, a partire dalla Cina e dall’India, per frenare le derive protezionistiche e la frammentazione dei mercati. Cosa possiamo aspettarci da questo punto di vista con la nuova presidenza americana? Senza dubbio la campagna elettorale di Donald Trump ha insistito sulla difesa delle produzioni americane con barriere tariffarie, non solo nei confronti dalla concorrenza asiatica. D’altra parte, la deriva protezionistica, ben oltre l’approccio della prima presidenza di Trump, è stato l’elemento che ha caratterizzato l’Amministrazione Biden che, rilanciando la politica industriale nel paese una volta culla del liberismo, ha al tempo stesso aumentato le barriere al libero commercio internazionale e aumentato con enormi programmi di spesa pubblica quel deficit pubblico che, essendo la vera causa del deficit commerciale americano, è stato posto a giustificazione della svolta protezionistica agli occhi degli elettori americani. Questa politica è stata aspramente criticata dalla maggior parte degli economisti americani, anche da tutti quelli che hanno firmato appelli elettorali contro Trump, che hanno cercato di chiarire che si trattava di una strada sbagliata che avrebbe danneggiato la stessa economia americana, perché i conflitti commerciali a base di barriere tariffarie danneggiano tutti i contendenti, alimentando l’inflazione e ritardando anche, di fatto, l’attuazione della transizione green. Quindi cosa  possiamo aspettarci di diverso dalla nuova Amministrazione? Io credo innanzitutto un approccio diverso alla politica protezionista. Quella di Biden aveva tratti ideologici, in altri termini era guidata non solo dal tentativo, con mezzi sbagliati, di difendere l’industria americana, ma da quello di contrastare la crescita dell’economia cinese. Si trattava, quindi, di una politica di potenza, guidata dai consiglieri della sicurezza nazionale. Dalla nuova presidenza ci si può probabilmente aspettare un approccio più pragmatico, cioè un negoziato duro sul piano delle relazioni economiche e commerciali con il resto del mondo, ma con una maggiore attenzione ai veri interessi dell’industria e della finanza americana, che non sono contrari al libero commercio.  Da questo punto di vista, la seconda temuta differenza tra le due presidenze sarà probabilmente quella di non offrire trattamenti di molto maggior favore agli alleati europei rispetto agli altri paesi che operano sui mercati globali. Ciò costringerà l’Europa a svegliarsi e a decidere dove andare: continuare a seguire gli Stati Uniti sulla strada, perdente, del protezionismo tariffario o scegliere più liberamente, secondo il proprio interesse, come muoversi nel libero mercato.
Giovanni Tria


 

C’è da attendersi un’ondata di diffidenza reciproca alla Cop29 

Trump entrerà in carica ufficialmente fra qualche mese  ma sin da ora la politica americana non potrà non tenerne conto. A fine novembre si terrà a Baku, in Azerbaigian, la Cop29. La sede nella quale si dovrebbe fare il punto sugli Accordi di Parigi lungo la traiettoria delle emissioni zero nel 2050.  Il primo Trump aveva a suo tempo disdetto la partecipazione americana, ripristinata poi da Biden. Trump ha già promesso  di mettere in un angolo la transizione verde. Poi bisogna distinguere  fa le parole e la sostanza. Durante la presidenza del “verde” Biden e del suo inviato Kerry che giurava sulla fine dei combustibili fossili, gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori di gas e petrolio nonché esportatori netti. E il principale sostenitore di Trump, Elon Musk,  è l’uomo più ricco del mondo soprattutto per la valorizzazione in Borsa di Tesla produttore di auto elettriche. Tutto bene quindi? No. La diplomazia ambientale è o era rimasta uno dei pochi luoghi di confronto fra le potenze mondiali e quasi 200 fra paesi e istituzioni vi partecipano. Da domani il virus della diffidenza reciproca ne  minerà in modo inevitabile il clima,
Chicco Testa


 

Difendere l’agricoltura italiana ed europea è ancora più urgente

Con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, l’Unione europea è chiamata a potenziare significativamente il proprio bilancio agricolo, ancora insufficiente rispetto al Farm Bill americano e agli investimenti cinesi in agricoltura. Questo passo è cruciale per mantenere la nostra competitività nei mercati globali. Auspichiamo, inoltre, che si possa arrivare a un cambiamento rispetto alla situazione storica, in cui il settore agroalimentare italiano ha spesso subìto penalizzazioni a causa di controversie economiche tra Stati Uniti e Ue riguardanti altri settori produttivi, come quello aerospaziale.
Ettore Prandini (presidente di Coldiretti)


 

Gli accordi commerciali tra America ed Europa sono a rischio 

Cosa cambierà? Difficile dirlo vista l’imprevedibilità del personaggio. Ma proviamoci. Forse si potrà provare a chiudere il conflitto russo-ucraino con una pace di compromesso alla coreana per dedicarsi al fronte della competizione vera con la Cina cercando di normalizzare il rapporto con la Russia e riavvicinandola al fronte occidentale. Forse si potrà accelerare il progetto di unione della Difesa europea finora osteggiato sì dai governi e dai sovranismi nazionali ma anche da un cappello americano, che almeno in Europa non ha ancora abdicato al suo ruolo di nume tutelare. Forse si amplierà ulteriormente il diverso approccio di policy su nuove tecnologie e sostenibilità, con un’Europa che continuerà a regolamentare in modo eccessivo (si pensi all’intelligenza artificiale o agli standard ambientali) e l’America a lasciare al mercato autoregolarsi in modo ugualmente eccessivo. Ne potrebbero derivare transizioni digitali e ambientali piuttosto divergenti. Continueranno a persistere importanti differenze nella regolamentazione bancaria che daranno alle banche statunitensi nuovi importanti vantaggi competitivi sui mercati finanziari globali. Non si chiuderanno gli accordi internazionali in sede Ocse per una tassazione più armonizzata ed equa su attività digitali e multinazionali. Rischiano forse anche di peggiorare i termini dei rapporti commerciali tra Europa e America, con l’imposizione di dazi e barriere non tariffarie sulle esportazioni europee e maggiori costi dell’energia che potrebbero ulteriormente sfiancare la competitività europea e il suo modello export led. Tuttavia Trump starà attento a non importare inflazione con dazi eccessivi sui beni di consumo.
Stefano Firpo (direttore Assonime)


 

Replicare il modello Trump anche in Italia? Difficile arrivare a tanto

I trumpiani d’Italia devono trovare il loro Elon Musk e non bastano, a occhio, i giornali d’area. Per il contagio Maga dalle nostre parti servirebbero parole nuove rispetto ai populismi vincenti ma ormai stagionati. Ci vorrebbe un super vaffa atomico, un “siete circondati” spaziale, o anche, con trumpiana noncuranza per i simboli politici, una “questione morale” orbitale o, per scendere più nell’ordinario, una Quota cento milionaria. Tutto molto difficile, qui nella terra dei sentieri stretti, dove i giochi del populismo immaginifico li abbiamo già spesati tutti a bilancio, anche a carico di varie generazioni. Donald Trump si è potuto muovere in un sistema contendibile e si è potuto appropriare di un partito, o meglio del suo spazio elettorale, perché quel partito era vulnerabile alle scalate ostili e non aveva predisposto le difese dai ladri ma solo dai competitori sul mercato del consenso. E Trump può giocare con le forze sociali e con il malcontento perché dalle sue parti, comunque, l’economia cresce e la compagine sociale è varia, solida, ricca. E perché gli Stati Uniti sono forti e dotati di influenza sul resto del mondo. Trump è la parodia di un leader politico, imitarlo porterebbe troppo lontano dall’originale.
Giuseppe De Filippi


 

Urge difendere le nostre imprese: è il momento della concretezza

Nel giorno del successo di Trump, per l’Europa è suonata la sveglia. Il grande tema per le aziende è il timore per i dazi e il protezionismo promessi in campagna elettorale. Se un rischio c’è, bisogna essere attrezzati ad affrontarlo ed è forse il motivo per cui noi europei oggi siamo preoccupati.  Servono strategie e politiche commerciali e industriali comuni per stimolare competitività e crescita. Non c’è tempo da perdere, né servono gli allarmismi di alcuni o l’entusiasmo di altri. E’ il momento della concretezza. Nel frattempo, vedremo cosa davvero accadrà, chi affiancherà il presidente come segretario al Commercio e quali obiettivi avranno i dazi. Perché saranno una leva nel duro confronto geopolitico con la Cina e verso il Vecchio Continente per ottenere qualcosa in cambio. E a noi non è concesso il lusso di indugiare, bisogna tutelare aziende e filiere per le quali quel mercato è importante non solo per il presente ma anche per le strategie di sviluppo industriale per il futuro.
Marco Gay (presidente Unione Industriali Torino)

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