Qualcosa si muove in Italia sulla sicurezza di università e ricerca con la Cina

Giulia Pompili

Mattarella a Pechino incontra Xi Jinping mentre Crosetto e Bernini alzano i muri della sicurezza: beh, più o meno

Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è arrivato a Pechino, accompagnato – come da protocollo  in questi casi – dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. Si tratta di una visita di dovere, a lungo annunciata e attesa, che durerà fino a martedì prossimo: l’ultima volta in cui il capo dello stato è volato in Cina era il 2017, il mondo era diverso e anche i rapporti fra  Cina, Italia e il resto del mondo erano diversi. E così, mentre Mattarella faceva visita al palazzo d’Estate di Pechino, a Roma il ministro della Difesa Guido Crosetto, in audizione al Senato, parlava di guerra ibrida e a Palazzo Chigi veniva presentato il piano d’azione “per tutelare l’università e la ricerca italiane dalle ingerenze straniere”. 

 

 Mattarella al World Art Museum di Pechino per la mostra “Viaggio di conoscenze. Il Milione di Marco Polo e la sua eredità fra Oriente e Occidente” (LaPresse)

 


Come riportato più volte da questo giornale, da qualche anno quello dello spionaggio e del furto di proprietà intellettuale nei centri di ricerca e nelle università è diventato un problema così serio da essere stato inserito da quasi tutti i paesi occidentali nella cornice della sicurezza nazionale. E lo è soprattutto da quando la Cina guidata da Xi Jinping ha cambiato approccio nella diplomazia internazionale, cerando di rendere università, dipartimenti e centri di ricerca stranieri quasi dipendenti dai suoi fondi – connessioni che gli permettono una corsia privilegiata anche nell’invio di studenti cinesi, in alcuni casi usati come spie, e nell’influenzare la ricerca anche umanistica grazie alla presenza capillare nei dipartimenti di lingue degli Istituti Confucio. Solo qualche esempio più recente: un mese fa cinque studenti cinesi dell’Università del Michigan sono stati incriminati in America perché sospettati di aver spiato le Forze armate americane; a maggio in Germania sono stati arrestati tre cittadini cinesi sospettati di voler trasferire tecnologia militare fingendo di fare attività di ricerca con almeno tre università tedesche.  

 


L’allarme nelle università e nella ricerca italiani era stato sollevato anche dal Dis nel suo ultimo rapporto, che identificava esplicitamente nella Cina il paese più problematico dal punto di vista della sicurezza. Eppure in Italia, a differenza di altri paesi occidentali, nessuna università ha mai chiuso le relazioni con un Istituto Confucio, e il governo italiano in generale fa ancora fatica a pronunciare la parola Cina. Ieri la ministra dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini, durante la conferenza stampa a Palazzo Chigi ha detto che “non esistono paesi buoni o cattivi, esistono buone pratiche o cattive pratiche”. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha spiegato che il fenomeno è monitorato da tempo dall’intelligence, e che il piano d’azione che l’esecutivo si appresta a mettere in campo riguarda un “adempimento di un obbligo europeo” – una raccomandazione approvata anche dall’Italia a fine maggio che chiede di adeguarsi agli standard internazionali di sicurezza. Già a luglio, alla riunione ministeriale del G7 su Università e Ricerca sotto la presidenza italiana, il primo punto del comunicato finale sottolineava la necessità di mettere in sicurezza la ricerca da attori ostili. Qualche giorno prima di quella riunione, la ministra Bernini aveva incontrato a Roma il suo omologo cinese Huai Jinpeng. 

 

   

Ora l’Italia inizia ad adeguarsi agli standard occidentali, e dall’inizio del tavolo di lavoro – che coincide con il voto della direttiva europea – il ministero ha intanto somministrato un questionario a università e centri di ricerca dai cui risultati si evince che sono le stesse accademie a essere preoccupate per la scarsa sicurezza della ricerca. Il governo a dicembre presenterà linee guida più concrete – va detto, su una materia difficilissima – basate sulla sensibilizzazione dei protagonisti e sulla creazione di cosiddette “zone a ingresso ristretto” – settori in cui sarà probabilmente vietato o disincentivato cooperare con i paesi ostili. 

 

 La ministra dell'Università Bernini e il sottosegretario Mantovano ieri alla conferenza stampa a Palazzo Chigi (LaPresse)


Lo spionaggio nella ricerca e l’influenza nelle università è parte del più complesso sistema della guerra ibrida cinese, per il contrasto della quale Crosetto ieri ha annunciato di voler creare un centro, anche coinvolgendo le università italiane. A una domanda su questo argomento, la ministra Bernini ha risposto: “Non so neanche cosa significhi guerra ibrida”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.