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Trattamenti farmacologici

I bloccanti della pubertà fanno male e ora anche le certezze woke scricchiolano

Marina Terragni

E' stato il New York Times a segnalare l’autocensura del team di Johanna Olsen-Kennedy. La dottoressa sembra che abbia nascosto i risultati di uno studio che dimostrerebbe come i trattamenti farmacologici possono procurare danni irreversibili ai bambini

10milioni di dollari, -9,7 per la precisione – investiti dal Congresso americano per uno studio di ben nove anni sui trattamenti farmacologici per “bambini trans”, studio i cui risultati non sono mai stati pubblicati. E non sono mai stati pubblicati perché hanno preso in contropiede la capo-progetto, dottoressa Johanna Olson-Kennedy, grande sponsor dei trattamenti di genere per gli adolescenti – gestisce la più grande clinica di genere per minori all’ospedale pediatrico di Los Angeles: secondo i dati finali dello studio, titolo “The Impact of Early Medical Treatment in Transgender Youth”, i bloccanti della pubertà non solo non risolvono nulla e non apportano alcun beneficio ai piccoli pazienti, ma possono anche procurare danni irreversibili. Ma Olson-Kennedy li ha tenuti per sé. 

 

Il 4 novembre – con Trump in dirittura d’arrivo – il Congresso ha aperto formalmente il caso istituendo una commissione che chiede conto a Olson-Kennedy: “Ci allarma il fatto che la responsabile del progetto non abbia rilasciato i risultati della ricerca che sollevano dubbi sull’efficacia del ‘modello affermativo’, e solo perché lei crede che questi dati potrebbero essere ‘usati come armi’ dai critici degli interventi medici transgender sui bambini”, è scritto nella dura lettera indirizzata ai responsabili del Nih, il National Institute of Health. “Il Nih”, continua la lettera che richiede tutta la documentazione del progetto entro e non oltre il 18 novembre, “ha la responsabilità di supervisionare i suoi progetti di ricerca per assicurare che i ricercatori pratichino la trasparenza, diano esempio di integrità scientifica e amministrino correttamente i finanziamenti pubblici”.

 

Era stata la stessa Olson-Kennedy ad ammettere in un’intervista al New York Times di non aver pubblicato i risultati dello studio sui puberty blocker a causa dell’ambiente politico surriscaldato su questi temi. “Risultati come questi”, aveva dichiarato, “possano alimentare attacchi politici come quelli che hanno portato al divieto dei trattamenti di genere tra i giovani in più di 20 stati”. Lo studio ha reclutato 95 giovanissimi pazienti gender – non conforming, età media 11 anni. I bambini sono stati trattati con blocker e seguiti nei due anni successivi, ma alla fine dei due anni si è dovuto constatare che i farmaci non avevano prodotto alcun significativo miglioramento nella loro salute mentale. Molto probabilmente, ha argomentato bizzarramente Olson-Kennedy, è perché i ragazzi non stavano poi così male nemmeno all’inizio dello studio. Balla: i ricercatori avevano constatato che circa un quarto del gruppo riferiva sintomi di depressione e ansia oltre a pensieri suicidi, e l’8 per cento aveva già tentato di morire. 

 

In un rapporto sullo stato di avanzamento presentato al Nih, Olson-Kennedy ipotizzava che dopo due anni di trattamento i bambini avrebbero mostrato “una diminuzione dei sintomi di depressione, ansia, sintomi di trauma, autolesionismo e tendenza suicidaria, e un aumento di autostima e qualità della vita”. Ipotesi che però non ha trovato conferma. “Non voglio che il nostro lavoro venga utilizzato come arma”, si è giustificata Olson-Kennedy, da parte di una parte politica che attacca la terapia affermativa e che ha già vietato questi trattamenti in più di venti stati. Lei stessa è stata testimone in qualità di esperta in molte sfide legali contro i divieti statali e dice di temere che i risultati dello studio possano essere usati in tribunale per sostenere che “non dovremmo usare i bloccanti perché non hanno alcun impatto sui pazienti”. 

 

Secondo l’associazione Do No Harm negli Stati Uniti solo tra il 2019 e il 2022 sono stati somministrati trattamenti correlati con il “cambio di sesso” a 13.994 bambine e bambini e 5.747 minori sono stati sottoposti a interventi chirurgici, sempre per il “cambio di sesso”, con un fatturato complessivo di almeno 120 milioni di dollari. Si tratta, è scritto nella lettera della commissione, di “un esempio inconfutabile di politicizzazione di una ricerca scientifica per promuovere un’agenda ideologica”.  

 

Olson-Kennedy ha anche sostenuto che in fondo gli studi sono poca cosa “rispetto alla quantità di persone di cui ci siamo presi cura” e che l’esperienza clinica dei medici viene spesso sottovalutata nelle discussioni in corso di ricerca: avendo prescritto bloccanti della pubertà e trattamenti ormonali a bambini e adolescenti “trans” per 17 anni ha osservato quanto possano essere profondamente benefici.
Altri ricercatori del team non sono di questo avviso: “Capisco la paura che i dati possano essere utilizzati come arma, ma è davvero importante diffondere la scienza”, è il parere di Amy Tishelman, psicologa clinica e ricercatrice del Boston College.  

 

I risultati dello studio americano danno ragione alla pediatra britannica Hilary Cass, che con il suo accurato review è arrivata a concludere che le prove a favore dei bloccanti della pubertà sono estremamente deboli, a fronte di rischi come ritardi nella crescita ossea e perdita di fertilità. I risultati del rapporto Cass hanno determinato il Servizio sanitario nazionale britannico a interrompere la prescrizione dei farmaci al di fuori di protocolli sperimentali, strada seguita anche da altri paesi europei (in Italia, dopo lo scandalo Careggi, si attende a giorni il nuovo parere del Comitato nazionale per la Bioetica). 

 

A margine, ma nemmeno troppo, il fatto che a segnalare l’autocensura del team di Olsen-Kennedy sia stato proprio il wokissimo New York Times, e proprio negli ultimissimi giorni di campagna per le presidenziali. Tentativo in extremis di dimostrare che anche i liberal su queste faccende vogliono chiarezza. Troppo tardi.

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