l'editoriale dell'elefantino
Perché non possiamo chiamarci fuori dalla autodifesa ebraica
Quando un ragazzo deve gridare “non sono ebreo” per evitare un linciaggio organizzato in una grande capitale europea, gli ebrei e l’occidente devono reagire con una forza di dissuasione pari a quella impiegata da Israele nel difendere il proprio diritto a esistere
L’autodifesa ebraica non riguarda solo Israele. Gli ebrei in occidente non possono guardarsi e essere guardati come vittime, come agnelli da macello, come prede di una caccia tollerata da loro e dalle società in cui vivono, e lo stesso vale per gli israeliani in trasferta. Ad Amsterdam, in una notte di pena e di vergogna, siamo stati a un passo dall’invio di truppe speciali di Gerusalemme, quando si era sparsa la notizia, purtroppo verosimile, di rapimenti o presa d’ostaggi. L’antisemitismo è oggi anche una forma amplificata e barbarica di importazione del conflitto in medio oriente, e se non lo si stronca con le buone e con le cattive ci accorgeremo presto delle estreme conseguenze. Le circostanze cosiddette attenuanti, lo scontro tra tifoserie, non hanno ingannato nessuno, c’era comunitarismo antisemita, islamista e fiancheggiatore, c’erano piani, premeditazione, l’imboscata e la caccia all’ebreo erano eventi previsti sui quali era stato dato l’allarme dei servizi in una città regina dello spirito europeo, la città di Anna Frank, sfregiata dal virus antisemita.
Monaco fu diversa, ovviamente, con la presa d’ostaggi e il loro massacro in un teatro olimpico, ma il fantasma di Monaco e del circuito infernale di delitto e castigo è aleggiato per anni sull’Europa, e i linciaggi, il getto nel canale, l’assedio negli alberghi, l’appostamento mascherato alla metropolitana, quel fantasma lo richiamano.
Sappiamo tutti che la Shoah fu un fatto, punto. Sappiamo anche che la sua santificazione, la sua doverosa erezione a tabù, fu il frutto di una crescita e di un irrobustimento della coscienza universale, Israele compresa. Ora l’intolleranza verso l’antisemitismo è messa alla prova della frantumazione o dell’offuscamento di quell’interdetto della civiltà occidentale. Un’occupazione pluridecennale e “illegale” dei territori, che ha nel violento e radicale, nel fanatico rifiuto arabo-islamico la sua spiegazione storica, non può giustificare la pratica e la cultura del pogrom. Quando un ragazzo deve gridare “non sono ebreo” per evitare un linciaggio organizzato e preordinato in una grande capitale europea, gli ebrei e l’occidente che ha lasciato sterminare in silenzio, con rare eccezioni, sei milioni di loro, devono reagire con una forza di dissuasione pari a quella impiegata da Israele nel difendere il proprio diritto a esistere. Anche l’estremismo vocale dei tifosi del Maccabi Tel Aviv, con i cori provocatori e i fischi alla bandiera nazionale spagnola percepita come bandiera nemica, sono il prodotto di un isolamento della coscienza israeliana ed ebraica nutrito dall’ondata antisemita successiva al 7 ottobre, ma da sempre strisciante nella mentalità che non ha sradicato il mostro di Auschwitz e Treblinka.
Non ci si può chiamare fuori, in quel che resta del mondo democratico e liberale, dalla autodifesa israeliana ed ebraica. Ogni volta che un ebreo lascia a casa i suoi costumi e simboli, le sue carte di identità, per paura o per protezione dall’offesa e dalla violenza, un pezzo della nostra libertà finisce all’inferno. Non esiste la scusante della libertà di espressione, della solidarietà con i palestinesi, non esistono se e ma di alcun genere. Dieci anni fa la libertà di espressione fu presa a fucilate, e non a chiacchiere libertarie da campus della Ivy League, dai terroristi che liquidarono i redattori di Charlie Hebdo a colpi di mitra, e due giorni dopo un supermercato ebraico, l’Iperkosher, fu sequestrato da altri sgherri dell’antisemitismo militante (dodici e quattro morti). L’attacco alla libertà di espressione è identico con l’attacco agli ebrei in quanto ebrei. Non sono due cose diverse o opposte. Netanyahu non c’entra, la guerra generata dal pogrom del 7 ottobre non c’entra. L’unico diritto di parola e di espressione e di manifestazione del pensiero, in queste circostanze, è quello che si riassume nell’espressione tradita: mai più.