La guerra su acqua
La Cina si è pappata la cantieristica navale globale, ed è una minaccia per la sicurezza
Anni di sussidi e concorrenza sleale hanno permesso ai colossi dello shipbuilding cinese (quasi tutti di proprietà statale) di prendersi il mercato. Cosa può fare Trump (e Meloni)
Nei giorni scorsi sui giornali sudcoreani si è parlato molto della prima conversazione telefonica fra il presidente americano eletto, Donald Trump, e il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol: i due leader hanno parlato non di auto elettriche e nemmeno di microchip, ma di shipbuilding. La cantieristica navale potrebbe diventare presto uno dei pilastri della relazione fra Washington e Seul, e se è stato già menzionato da Trump in una delle sue prime conversazioni da presidente eletto, è perché si tratta di un settore che interessa tutta l’alleanza occidentale, e soprattutto l’Europa. Un recente studio del think tank americano Center for Strategic and International Studies, dal titolo “La minaccia dell’impero cantieristico cinese”, sostiene che a partire dai primi anni Duemila Pechino “ha fatto un uso generoso di pratiche non di mercato per promuovere i propri costruttori navali a spese dei loro concorrenti”, e partendo dal 5 per cento di quota la Cina è arrivata, in poco più di vent’anni, a rappresentare oltre il 50 per cento del mercato della cantieristica navale, anche grazie agli ordini dall’estero – compresi quelli di paesi europei – che rappresentano il 64 per cento della sua produzione. A farne le spese sono soprattutto Corea del sud e Giappone, che attualmente restano i principali competitor della Cina, mentre nello stesso periodo la produzione dell’Unione europea e del Regno Unito è precipitata. Eppure Italia, Francia e Germania restano rispettivamente quinta, sesta e settima in classifica con numeri certo inferiori (l’Italia ha lo 0,62 per cento del mercato) ma di fondamentale eccellenza strategica.
A livello internazionale c’è ormai un certo consenso nel considerare il trasporto su acqua e gli strumenti per eseguirlo, uniti agli ingenti investimenti nelle infrastrutture portuali all’estero, come elementi fondamentali del programma Made in China 2025 di Pechino, che va di pari passo con la produzione di auto elettriche e il dominio nel settore dell’energia green: avere il quasi-monopolio di questi settori significa avere una leva politica a livello internazionale. Ma c’è molto di più a mettere in allarme chi si occupa di sicurezza nazionale e gli stakeholder occidentali: perché quasi tutte le industrie navali cinesi lavorano in stretta collaborazione con la Difesa, e i campioni nazionali come la China CSSC Holdings, la China Shipbuilding Industry (che a settembre hanno annunciato la fusione) e la Jiangnan Shipyard sono di proprietà del governo di Pechino. Oggi la Jiangnan Shipyard ha una capacità tale da raggiungere da sola la stessa produttività di tutti i cantieri americani, e sono già stati svelati al pubblico container con capacità missilistiche e l’uso militare di navi civili da parte della Cina, per esempio nel Mar cinese meridionale. “Ogni nave cinese è una nave da guerra”, dice al Foglio una fonte che lavora nel settore della cantieristica e che preferisce rimanere anonima perché non autorizzata a parlare con i media. “Il mercato si regola da solo soltanto se tutti rispettano le regole, ma non siamo più a questo punto”. Chi si occupa di shipbuilding in Europa domanda da tempo di mettere in sicurezza la quota di mercato che resta ai paesi occidentali facendo il cosiddetto “friendshoring” e limitando così il rischio di uno strapotere cinese. Eppure a fine luglio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in visita a Pechino, ha firmato un memorandum di collaborazione industriale – promosso dal ministero dell’Industria di Adolfo Urso – che fa riferimento alla cooperazione sulla cantieristica navale per la costruzione di yacht da crociera. Come Yoon in Corea del sud, anche l’Italia avrebbe i numeri e l’interesse per dialogare con l’America e riflettere su un settore poco mainstream ma d’importanza strategica globale.