Regno unito
Pazza idea: tasse più alte per gli studenti inglesi
I college di Sua Maestà piangono miseria, ma non è colpa della Brexit. L’idea del nuovo governo laburista: aumentare le tasse universitarie agli inglesi e abbassare quelle per gli stranieri
Dentro il secolare negozio di Ryder & Aimes, un gioiello della “Old Britannia” tutto in legno nel centro di Cambridge, c’è la fila di clienti ed è pure una tarda mattina di lunedì, non proprio l’orario commerciale migliore: vende divise e stemmi dei vari college, più tutta una serie di paraphernalia (oggetti e souvenir) a tema universitario. La bottega ha le vetrine proprio di fronte alla maestosa vetrata del King’s College, capolavoro dell’architettura gotica medievale inglese finito di edificare da Enrico VIII. E’ il re che fece la prima Brexit della storia, ma religiosa: lo scisma anglicano dalla Chiesa di Roma, per motivi dinastici (divorziare dalla moglie sterile). Secoli dopo, la Brexit, quella vera, avrebbe fatto scomparire gli studenti europei e i college piangerebbero miseria.
I condizionali sono più che opportuni. “Crisi? Ma quale crisi! Non riusciamo a stare dietro agli ordini che ci stanno arrivando. A giudicare da quanto vendiamo, il numero di studenti non è calato, anzi”, osserva stupito il commesso. E i numeri gli danno ragione: l’agenzia nazionale Hesa, l’Istat delle università, ha censito 2,9 milioni di studenti iscritti agli atenei britannici, nell’anno accademico 2022-2023 (ultimo disponibile). Mai così tanti. Di questi, gli stranieri sono il 26 per cento. Che è appena un quarto del totale, ma è anche il massimo storico. Primo mito da sfatare: gli stranieri non sono e non sono mai stati la maggioranza degli iscritti nei college inglesi. Gli europei sono drasticamente scesi dai 150 mila del 2020 ai 120 mila attuali, ma ecco il secondo mito da sfatare: la fuga degli studenti di Eurolandia (con in prima fila Italia e Germania) non ha svuotato le aule.
E’ vero che i college piangono miseria, ma non è la Brexit da incolpare. Per decenni, i corsi di Cambridge e Oxford sono stati riempiti da migliaia di smaniosi studenti dall’Europa. Era facile: bastava una comune carta d’identità per entrare nel paese e i cittadini comunitari pagavano le stesse tasse degli inglesi: poco più di 9 mila sterline all’anno, mentre gli stranieri extracomunitari, gli overseas, pagano fino a 18 mila per la medesima iscrizione. I programmi Erasmus, poi, rifornivano di fin troppa “manodopera intellettuale” le università inglesi. Ma il meccanismo non era reciproco: pochissimi gli studenti inglesi che andavano nelle università dell’Ue. Come biasimarli, d’altronde: gli atenei britannici, e in particolare Cambridge e Oxford, sono tra i migliori al mondo, perché andare altrove? Erano gli altri studenti europei che volevano venire nel Regno Unito, non il contrario.
All’ingresso del centro storico di Cambridge, un fin troppo pacchiano striscione, soprattutto perché affisso sulla parete di una chiesa antica in limestone, i blocchi di arenaria tipici dei palazzi cittadini, dà il benvenuto ai Fresh (le matricole). Fondata nel ’200 da un gruppo di studenti in fuga da Oxford, alcuni dicono per rivalità, altri perché troppo turbolenti, l’università della città del “Ponte sul fiume Cam” è da secoli una fucina di talenti, ma soprattutto ormai vive della “College Economy” l’enorme indotto dell’università. Qui Isaac Newton scoprì la gravità universale, rivoluzionando la storia dell’uomo. E tre secoli dopo due scienziati scoprirono, sempre a Cambridge, il Dna rivoluzionando per la seconda volta la storia. Oggi, quasi all’ora di pranzo, c’è una gran folla di giovani, ma non si vedono le frotte di studenti dal continente: ci vuole il visto (e un passaporto) per entrare nel Regno Unito e questo scoraggia (soprattutto gli italiani che per qualche strano motivo sono la nazione con la più bassa percentuale di passaporti in Europa). Ma, soprattutto, il costo di iscrizione per uno studente Ue è salito allo stesso livello degli altri stranieri.
Dannata Brexit, ma anche no. Dannato, invece, il Covid e dannata l’inflazione che hanno fatto salire i costi collaterali per una laurea (dagli affitti ai pranzi). I medesimi numeri dell’Hesa dicono però che gli studenti stranieri in Inghilterra non sono diminuiti, è solo cambiata la composizione. Cinesi, indiani e africani hanno compensato il calo degli europei senza che nessuno se ne sia particolarmente lamentato. La prima nazionalità straniera nei college inglesi è quella degli indiani, con 172 mila ragazzi censiti; segue la Cina con 154 mila, il paese con il balzo più forte perché ne contava “solo” 100 mila quattro anni fa. Al terzo posto c’è una sorpresa: la Nigeria, con 70 mila studenti. Tutte nazioni che hanno sempre pagato, senza battere ciglio, la retta a prezzo pieno perché non hanno mai goduto dei benefici degli studenti Ue.
Quello che oggi zavorra le università sono i costi, esplosi dopo la doppia botta di pandemia e inflazione. Ecco che i dean sono andati a piangere a Downing Street dove hanno trovato le orecchie ben disposte (anche perché i college hanno un orientamento progressista e sono un grosso bacino di voti per il Labour): il premier Keir Starmer è pronto a dare un aiuto, sotto forma di aumenti delle tasse di iscrizione, ma solo per gli inglesi. Che, detto così, pare auto-discriminazione, ma c’è anche una spiegazione molto pragmatica: per ogni studente inglese che si è iscritto l’anno scorso, le università hanno perso 2.500 sterline. Ecco l’idea del nuovo governo laburista: aumentare le tasse universitarie agli inglesi, peraltro ferme dal 2017, di 1.200 sterline per portarle a 10.500 all’anno, che fa un rincaro del 13 per cento, alla faccia dell’inflazione che cala. E allo stesso tempo sono state abbassate quelle per gli stranieri. La cosa potrebbe far riaffacciare gli studenti europei ma il rischio è che invece gli quelli inglesi, le cui famiglie sono già bastonate dalla valanga di tasse in arrivo, potrebbero decidere di non andare più al college.
Qualche rettore se ne compiacerà: la “diversity” è ormai un mantra anche per gli atenei britannici. Peccato che porti anche problemi non preventivati: la scorsa primavera, lungo la zona pedonale di Aldwych, a Londra, davanti all’ingresso del King’s College, una delle università più prestigiose della capitale, si sentivano ogni giorno schiamazzi e cori venire dall’interno del cortile. Erano gli studenti (ma forse la parola e la categoria sono sopravvalutati) che protestavano contro Israele sventolando bandiere della Palestina: qualcuno inneggiava pure ai terroristi islamici di Hamas. Il vero problema dei college di Sua Maestà non è la Brexit, ormai una foglia di fico che l’Europa applica per dimostrare la tesi sbagliata che non c’è vita fuori dalla Ue, né tantomeno le esose tasse di iscrizione. Il vero problema è piuttosto è che gli atenei si stanno trasformando in un pericoloso covo di antisemitismo e di risentimento nei confroni dell’occidente.