Un momento delle aggressioni antisemite ad Amsterdam dopo la partita Ajax-Maccabi Tel Aviv (Ansa)

Nella soffitta di Anne Frank

Gli ebrei di Amsterdam ci raccontano la fine dell'illusione multiculturale

“Questa non è più la nostra città”. Via la kippah, la mezuzah e la sukkah: qui un ebreo deve nascondere di essere ebreo, troppo pericoloso. “Sono come il capitano di una nave che affonda”, ci dice il rabbino capo d’Olanda Jacobs (cinque dei suoi sette figli hanno lasciato il paese)

Jodenjacht, “caccia agli ebrei”. Un’espressione olandese che nel 1944 ha segnato la storia di Amsterdam al numero 263 di Prisengracht, dove c’è la casa di Anna Frank, e di nuovo quella del 2024, durante una settimana in cui gli olandesi commemoravano la Kristallnacht. Una chat di gruppo WhatsApp filopalestinese aveva chiesto una “caccia ai cani ebrei” la sera prima della partita tra Ajax e Maccabi. Sapevano dove alloggiavano gli israeliani. Sapevano quali hotel, quale strada, avrebbero preso al termine della partita. Era tutto organizzato. Tassisti, autisti di uber, motociclisti. 
In un anno, l’Olanda ha registrato la metà degli attacchi antisemiti in Francia. Ma rispetto al numero degli abitanti, il dato olandese è molto più preoccupante, perché la popolazione olandese è tre volte e mezzo inferiore a quella francese e la sua comunità ebraica è molto più piccola per tragiche ragioni storiche (il 75 per cento è stata uccisa durante la Seconda guerra mondiale, rispetto al 30 per cento in Francia).
“Nessun ebreo che conosco salirà più su un Uber o su un taxi ad Amsterdam senza prima controllare che la stella di David che indossa sia ben nascosta” ha scritto il romanziere olandese Leon de Winter. Nella notte in cui centinaia di tifosi di calcio hanno temuto per la propria vita, la comunità ebraica è entrata in azione. Hanno aiutato gli israeliani braccati fornendo riparo per la notte e un passaggio per l’aeroporto di Schiphol, dove avrebbero atteso i voli speciali della El Al israeliana arrivati da Tel Aviv.
Quattro giorni dopo le autorità di Amsterdam accusano le vittime di essersela cercata. Nel suo primo rapporto sulle aggressioni di massa ai tifosi di calcio israeliani ad Amsterdam, il comune della città a guida sinistra li ha accusati di aver intonato “canzoni odiose e razziste contro gli arabi”. Un cambiamento di 180 gradi rispetto alla retorica dei funzionari della città finora, inclusa la dichiarazione del sindaco Femke Halsema secondo cui “non ci sono scuse” per le aggressioni. Jazie Veldhuyzen, membro del consiglio comunale di sinistra di Amsterdam, è tra i manifestanti arrestati e rilasciati. Poi la sindaca è andata a incontrare un gruppo di manifestanti: alcuni avevano il passamontagna e la fascia verde dell’ala militare di Hamas.
Amsterdam è una delle città più cosmopolite del mondo, con residenti provenienti da 180 paesi. Gli olandesi non sono la maggioranza, né lo sono quelli di origine europea. Quindici anni fa, gli olandesi costituivano il 50 per cento della popolazione, oggi sono scesi al 44 per cento. Il gruppo più numeroso dopo gli olandesi sono i marocchini, seguiti dagli immigrati dal Suriname con 63mila e dalla Turchia con 45mila. Amsterdam avrebbe dovuto essere come Berlino, Londra e Parigi: un rifugio per gli oppositori degli stati nazionali e i sostenitori delle frontiere aperte e del multiculturalismo. Un modello di città libera e aperta, ma non avevamo bisogno del Maccabi Tel Aviv per sapere che era un’illusione.
Vista da davanti, la sinagoga dell’Aia non è riconoscibile, due spesse porte verdi presentano una facciata chiusa sulla strada. Ad Amsterdam, la scuola elementare ebraica ha livelli di protezione ancora più distopici, nascosti dietro diversi strati di metallo e recinzioni. Dall’esterno, la vista della scuola è completamente chiusa. Molte famiglie hanno tolto dagli stipiti della porta di ingresso la mezuzah, che li avrebbe resi identificabili come ebrei.
Amsterdam era già stata teatro di proteste pro-palestinesi, tra cui una avvenuta a marzo davanti al Museo della Shoah, quando il presidente israeliano Isaac Herzog ha partecipato alla sua inaugurazione.
In una cerimonia ad Auschwitz lo scorso gennaio, a cui hanno partecipato ex presidenti, primi ministri e leader parlamentari di vari paesi (dall’Italia Matteo Renzi), Bianca Sirdzinka, studentessa ebrea dell’Università di Groningen nei Paesi Bassi, ha raccontato: “La situazione per gli studenti ebrei è terribile! È spaventoso camminare per le strade. Studenti del Memoriale dell’Olocausto sono stati presi di mira con il lancio di pietre. Rivelare la propria origine è rischioso; bisogna nascondersi. La nostra sicurezza è compromessa e l’antisemitismo è dilagante”.
Intanto anche la celebrazione ebraica di Hanukkah nella città olandese di Enschede prendeva una piega strana, dopo che il sindaco ha rifiutato di farsi vedere vicino all’ambasciatore israeliano. La sinagoga di Enschede aveva invitato il sindaco Roelof Bleker alla celebrazione di Hanukkah e riservato un posto a Bleker accanto all’ambasciatore israeliano, Modi Ephraim. Ma poche ore prima, la sinagoga ha ricevuto una telefonata da Bleker. "Il sindaco non vuole sedersi accanto all’ambasciatore e non vuole stringergli la mano”. La piccola comunità ebraica di Enschede – 45 ebrei in totale – era già frustrata da Bleker, che ha respinto le loro richieste di maggiore sicurezza dopo il 7 ottobre, nonostante un’ondata di attacchi antisemiti.
Al Foglio, lo scrittore ebreo Leon De Winter non nasconde il suo pessimismo: “Da molti anni gli ebrei ad Amsterdam non vogliono farsi riconoscere come ebrei. In una-due generazioni, gli ebrei se ne saranno andati dall’Europa”. All’Aia una scuola ebraica ha rimosso la targa in onore dei sopravvissuti alla Shoah nel timore di atti di vandalismo. La polizia non ha permesso a una famiglia di esporre la sukkah fuori dalla casa.
“L’impatto della notte dell’attacco è molto significativo, siamo ancora troppo vicini a quanto successo, ma le persone sono molto impaurite, abbiamo perso la fiducia nel governo e nella polizia” ci racconta Elliott Hollander, ebreo olandese tornato ad Amsterdam da Israele per lavorare per una azienda di servizi. “Dal 7 ottobre c’è stata una accelerazione. Da qui a dieci anni, temo sia finita. Io me ne andrò. Mi piaceva tornare nel mio paese, ma il 7 ottobre come ebreo mi ha messo in una posizione diversa. Prima l’apertura del museo della Shoah, dedicato alla memoria degli ebrei gassati in Germania. Sopravvissuti e familiari erano presenti: il sindaco con il capo della polizia hanno accettato che una manifestazione palestinese si tenesse di fronte al museo. Gli ebrei sono dovuto passare davanti a questa gente, traurla, sputi, accuse che eravamo ‘assassini di bambini’. Il 7 ottobre poi abbiamo tenuto una commemorazione dei morti israeliani. E quel giorno hanno manifestato nuovamente in Piazza Dam, davanti a noi. E ora l’attacco durante la partita. Dalla stazione al mio ufficio è come camminare per Teheran: se portassi una kippah non arriverei senza danni al lavoro. E tutto è accettato per politicamente corretto, paura e ideologia. Gli ebrei, amici ebrei, rimuovono la kippah e tolgono la mezuzah. Evitano certi quartieri di Amsterdam. Ai miei figli ho detto di non parlare ebraico nel centro di Amsterdam. Ma gli olandesi, persone con cui lavoro, se ne fregano. Io me ne andrò, ma l’Europa sarà completamente fottuta. Anche se ho un po’ di ottimismo: vedo le persone stanche di come sta tutto precipitando”.
Qualche anno fa, un gruppo di ragazzine ebree della stessa età di Anne Frank dichiarava al quotidiano Het Parool che non sarebbe più uscita di casa con al collo la stella di David: erano state picchiate per strada da una banda di immigrati. Lo aveva previsto l’ex eurocommissario sotto Romano Prodi, Frits Bolkestein, il guru dei liberali che lanciò un invito choc: “Gli ebrei non hanno futuro qui e dovrebbero emigrare negli Stati Uniti o in Israele”. La denuncia di Bolkestein era contenuta in un libro, “Het Herval”, scritto da Manfred Gerstenfeld. Fra i primi leader politici a reagire alla “proposta” di Bolkestein proprio Femke Halsema, allora deputata ecologista e oggi sindaco di Amsterdam, la quale si chiese se l’ex commissario europeo non si fosse “kierewiet”, rimbambito. Il ministero della Giustizia dell’Aia è ricorso anche a metodi a dir poco fuori dal comune. Poliziotti vestiti con gli abiti della tradizione ebraica ortodossa che si fingano ebrei. Esche per le strade.
I suggerimenti di Bolkestein sono stati fatti propri anche da un’eminente rappresentante della comunità ebraica di Amsterdam, Bloeme Evers-Emdem. Sopravvissuta ad Auschwitz, professoressa dell’università della città, la donna afferma di aver detto a figli e nipoti di lasciare il paese e che una sola direzione si offre loro: Israele. “I problemi non toccheranno me fintanto che sarò viva, ma consiglio fortemente ai miei figli di andarsene dall’Olanda”. La secolare sinagoga di Weesp è diventata la prima che in Europa, dalla fine della Seconda guerra mondiale, ha cancellato i servizi di Shabbath a causa delle minacce alla sicurezza dei fedeli.
Ayaan Hirsi Ali, che è stata una deputata liberale olandese e la collaboratrice di Theo van Gogh per il film “Submission”, racconta che c’è un problema di infiltrazione islamica nella polizia. “Conosco bene Amsterdam. Per molti anni ho vissuto nei Paesi Bassi. Vent’anni fa è stato implementato un piano ben intenzionato per incoraggiare la partecipazione delle minoranze etniche in tutte le aree in cui sono sottorappresentate. La polizia e le agenzie di sicurezza erano considerate ‘troppo bianche’. Gli islamisti (Fratellanza musulmana) hanno adottato la strategia dell’islamizzazione attraverso la partecipazione. Quindi l’impazienza dell’establishment di sinistra di accelerare il processo di partecipazione ha portato all’abbassamento degli standard per le minoranze. I controlli sono diventati sempre meno rigorosi. Ricordo bene quando facevo affidamento sulla protezione della polizia olandese per assicurarmi di non subire la stessa sorte del mio amico Theo van Gogh, che era stato accoltellato a morte da un jihadista nelle strade di Amsterdam. Un giorno, uno degli agenti assegnati alla mia scorta di sicurezza si è rivelato di origine turca. Mi sentii a disagio quando iniziò a criticarmi per il mio lavoro con van Gogh su ‘Submission’. Quando espressi le mie preoccupazioni, il suo superiore mi disse che non spettava a me, a cui era stato affidato il compito di proteggermi. Dovevo imparare un nuovo tipo di sottomission. Oggi, gran parte della forza di polizia di Amsterdam è composta da migranti di seconda generazione provenienti dal Nord Africa e dal medio oriente”. Dal 7 ottobre, alcuni ufficiali si sono già rifiutati di sorvegliare luoghi ebraici come il Museo dell’Olocausto.
“Per anni l’antisemitismo è cresciuto e nessuno voleva sentire”, ci racconta il rabbino capo d’Olanda, Binjamin Jacobs. “E cresce ogni giorno. I nuovi olandesi, i musulmani, stanno crescendo in numero. Non mi hanno meravigliato le scene di Amsterdam. Va avanti da cinquant’anni. La polizia non vuole che prendere i mezzi pubblici. Qualche settimana fa c’è stato un mega evento alla sinagoga portoghese: mai visti tanti poliziotti, incredibile”. Tutti i sette figli del rabbino capo Jacobs, tranne due, hanno lasciato l’Olanda per Israele e altrove. “Sono arrivato in Olanda nel 1975 e capii subito che sarebbe successo. Rimarremo in numeri sempre più piccoli. Ho un figlio in Olanda, uno a Londra e uno a New York. Poi le figlie: una in Olanda, una in Montreal e un’altra a Londra. Sono come il capitano in servizio su una nave che affonda”. 
Qualche mese fa, l’unica scuola ebraica ortodossa dei Paesi Bassi ha chiuso a causa dei rischi per la sicurezza. La scuola Cheider di Amsterdam ha deciso di fornire lezioni online agli alunni. La comunità ebraica di Groningen ha smesso do pubblicare online gli orari delle preghiere. Un gruppo di volontari manda messaggi agli amici via WhatsApp.
“Dopo l’attacco, le persone hanno tre emozioni” dice al Foglio Esther Voet, direttrice del settimanale ebraico olandese, il Nieuw Israëlietisch Weekblad. “Le persone hanno paura. Sono molto tristi, specie la generazione più anziana. I giovani sono arrabbiati”. Voet ha offerto la sua casa a persone che cercavano rifugio dalle strade del centro. Unendo le forze con un collega che guidava per Amsterdam raccogliendo israeliani spaventati all’idea di uscire, Voet ha ospitato dieci persone nella sua casa tra l'una di notte e l'una di pomeriggio di venerdì. “E’ stato un movimento organizzato a Amsterdam, dove dopo il 7 ottobre ci sono state molte dimostrazioni violente. Vivo a duecento metri dalla casa di Anne Frank. Le autorità non intervenivano. Speravano che passasse. Il 10 marzo di quest’anno c’è stata l’apertura del museo della Shoah. Ed è stato orribile, le autorità hanno consentito ai manifestanti di urlare fuori dalla famosa sinagoga portoghese, mentre il re parlava all’interno. Il sindaco ha dato a questi gruppi il diritto di avvicinarsi a questa cerimonia. Da allora, altre manifestazioni hanno avuto luogo, specie all’università, che hanno distrutto con quattro milioni in danni. Poi una commemorazione il 7 ottobre a Piazza Dam e ancora il sindaco ha consentito ai filopalestinesi di arrivare vicino alla commemorazione. Sapevamo che prima o poi sarebbe diventata fisica”. E’ stata organizzata, erano pronti. “E ora molti ebrei si nasconderanno. E qui ad Amsterdam questa non è più la mia città. Gli ebrei sanno che per loro non c’è più Mokum, come chiamano Amsterdam. Non posso neanche andare al negozio vicino casa senza vedere una bandiera palestinese alle finestre. Ma non vedrai mai una bandiera israeliana, è troppo pericoloso. Non andrà meglio, soltanto peggio. Questo è il paese dove gli ebrei non avevano mai avuto un ghetto in Europa. Ma è tutto finito. E ora non mi interessano più le parole delle autorità, che in molte zone di Amsterdam hanno persino paura a entrare”. 
Macabra, ma giusta, l’ironia di un sito americano: “Questa settimana il museo Anne Frank di Amsterdam rimarrà chiuso: ci sono cento ebrei nascosti nella soffitta”. Mokum è diventata la Mecca sul fiume Amstel.