L'Europa è impreparata all'uragano Trump

Roberto Dilmore

La tempesta, viste anche le nomine annunciate, sarà forte nel Vecchio continente, già alle prese con la bassa crescita economica. Eppure l’Ue saprebbe rispondere alle sfide della nuova America, se solo desse retta a Mario Draghi

La tempesta arancione che da mesi si stava formando sull’altra sponda dell’Atlantico ha finalmente preso forma e consistenza agli inizi di novembre. La speranza estiva che forti correnti provenienti dal nord-est dal mid-west e dalla costa pacifica degli Stati Uniti potessero fermarla e addirittura dissiparla, non si è purtroppo concretizzata, soprattutto a causa dell’insufficiente apporto delle correnti del mid-west.

  
Con la concomitante conquista del Congresso da parte dei Repubblicani, la tempesta arancione è diventata un uragano. La sua forza è ancora sconosciuta, ma è sicuramente imponente. Quel che sappiamo è che approderà negli Stati Uniti, per la precisione a Washington DC, nella seconda metà di gennaio e di lì nei prossimi quattro anni sferzerà i cinque continenti. I danni attesi sono ingenti e, in funzione della forza dell’uragano, in alcuni casi potrebbero rivelarsi devastanti.

   
Quanto ingenti e quanto devastanti? Lo sapremo relativamente presto. Nei primi cento giorni Trump può cercare di trasformare gli Stati Uniti in una democrazia illiberale semplicemente realizzando alcuni degli impegni contenuti nel suo programma elettorale (e che possono essere realizzati in tempi brevi e senza l’approvazione del Congresso). Questo potrebbe avvenire (i) licenziando o rimuovendo un gran numero di funzionari di carriera che lavorano nel governo federale con funzionari di nomina politica. Questo verrebbe consentito dal cosiddetto Schedule F, che Trump introdusse alla fine della sua prima Amministrazione e che Biden abrogò appena eletto. Si badi bene, Schedule F va ben oltre lo spoils system. Quest’ultimo prevede la nomina di 4.000 posizioni apicali nell’amministrazione federale, mentre con lo schedule F si parla del rimpiazzo di 50.000 funzionari che sono stati assunti dal governo federale secondo criteri meritocratici; (ii) infarcendo il sistema giudiziario e gli organi di sicurezza con uomini a lui fedeli; (iii) organizzando grandi retate per espellere milioni di immigrati in posizione irregolare (la prima tra le priorità menzionate nel suo programma elettorale – Agenda 47); (iv) concedendo la grazia a coloro che sono in prigione o sotto processo per aver dato l’assalto al Capitol Hill il 6 gennaio 2021, e (v) consentendo a oligarchi dell’high-tech come Elon Musk di aver accesso diretto alle leve del potere con il relativo indebolimento delle relative agenzie incaricate dell’antitrust, della stabilità finanziaria e della protezione dei diritti dei consumatori e della privacey dei cittadini. 

   
A livello internazionale, più ancora che il medio oriente, sarà l’Ucraina a fornire una prima indicazione della vera natura dell’unilateralismo trumpiano intende avanzare. Se negoziati di pace con la Russia verranno lanciati senza una vera consultazione dell’Ucraina e degli alleati europei e la soluzione del conflitto si ridurrà a un accordo russo-americano, allora si avrà un segnale molto preciso di come Trump intende sviluppare i rapporti con i suoi alleati e anche sul ruolo degli Stati Uniti nell’Alleanza atlantica. 

 
Se la maggior parte di quanto sopra si concretizzerà rapidamente, allora diventerà chiaro che siamo in presenza di un uragano forza 4 o 5, che colpirà l’Europa in modo particolarmente virulento e farà devastazioni importanti in campo economico (in primis attraverso l’imposizione di pesanti dazi doganali) e politico (con la probabile affermazione di sistemi di democrazia illiberale in alcuni paesi europei, mettendo a repentaglio la coesione stessa dell’Unione).

 
Tuttavia, Trump potrebbe rivelarsi un presidente transattivo (“a transactional president” come viene spesso definito) e utilizzare il proprio programma elettorale come la posizione di apertura iniziale, ma non definitiva, di un processo negoziale. In questo caso, le misure menzionate in precedenza verrebbero in parte attuate, ma anche significativamente ridimensionate. Certo, alcuni funzionari di carriera verrebbero licenziati e sostituiti da nomine politiche; il numero delle espulsioni di immigrati irregolari aumenterebbe significativamente senza però assumere proporzioni bibliche; il sistema giudiziario e gli organi di sicurezza vedrebbero un aumento di persone fedeli a Trump, ma in modo graduale e non sistematico, in modo simile a quanto avvenne durante il suo primo mandato; solo alcuni degli assalitori (quelli soggetti alle accuse meno gravi) verrebbero perdonati; e gli oligarchi dell’high-tech, pur esercitando un’indubbia influenza sulla nuova Amministrazione, non ricoprirebbero comunque posti chiave. Per quel che riguarda l’Ucraina, l’unilateralismo dell’Amministrazione Trump verrebbe temperato da un coinvolgimento, seppur in posizione subordinata, dell’Ucraina e dei paesi europei nei negoziati di pace. In questo caso saremmo di fronte a un illiberalismo strisciante e non necessariamente irreversibile, che, nell’ambito delle relazioni transatlantiche, consentirebbe di raggiungere accordi, certo sfavorevoli all’Unione Europea e i suoi stati membri, ma comunque capaci di evitare un certo numero di conflitti e tensioni tra le due sponde dell’Atlantico. Se così fosse, per continuare nella metafora, saremmo in presenza di un uragano forza 1 o 2, che sicuramente farà molti danni – economici, politici e sociali – ma che non produrrebbe necessariamente effetti devastanti.

 
E’ difficile dire a questo stadio quale sarà la forza dell’uragano arancione e i danni che provocherà a livello globale. Sulla base delle nomine annunciate fin qui da Trump si può temere che saremo in presenza di un uragano forza 3-5, piuttosto che 1-2. Se guardiamo al nostro continente, coloro che, con diversi mesi di anticipo, avevano avvertito del pericolo che la tempesta/l’uragano arancione rappresentava per l’Unione Europea e i suoi stati membri devono purtroppo constatare che concretamente ben poco è stato fatto per mitigarne l’impatto. L’Europa è dunque impreparata ad affrontare una nuova presidenza Trump, anche nella sua versione soft. Certo, la Commissione europea ha creato una “Trump task force” per poter rispondere all’eventualità in cui il nuovo presidente imponga tariffe sulle importazioni europee. Inoltre, recentemente vi sono stati incontri tra le istituzioni europee e gli stati membri per discutere piani di emergenza per questioni sulle quali una presidenza Trump potrebbe imprimere una direzione indesiderata, quali la guerra in Ucraina, il commercio internazionale o le politiche energetiche. Nell’insieme si tratta però di risposte reattive che sono comunque inadeguate per far fronte alle sfide rappresentate da una nuova e più radicale (rispetto alla prima) presidenza Trump. 


L’uragano arancione colpirà l’Ue in un momento di particolare debolezza politica ed economica. A livello economico, se Trump imporrà tariffe aggiuntive una volta arrivato alla Casa Bianca (cosa che farà quasi sicuramente perché ha bisogno di fondi per finanziare le proposte di riduzioni d’imposta e aumenti di spesa fatte durante la campagna elettorale), la crescita europea sarà dello zero virgola sia nel 2025 e che nel 2026 (rimando al proposito alle simulazioni contenute nel World Economic Outlook di ottobre del Fondo monetario internazionale). Una crescita più che anemica porrà i paesi membri dell’Unione Europea – e soprattutto quelli con deficit e debito elevati – di fronte a difficili scelte di politica fiscale, ora che le regole di bilancio sono tornate in applicazione. Inoltre, con Trump alla Casa Bianca, l’onere finanziario della fornitura di armi all’Ucraina e della sua ricostruzione ricadrà quasi interamente sull’Unione Europea, mettendo il suo bilancio a dura prova e accentuando gli istinti restrittivi dei paesi cosiddetti “frugali”. 


Tutto questo avverrà proprio nel momento in cui si dovrebbe invece contrastare la bassa crescita economica, accelerare le transizioni ambientale e digitale, definire una vera politica estera dell’Europa e creare un nucleo di difesa europea. In teoria, l’Ue e i suoi stati membri dispongono di un piano ambizioso che potrebbe rispondere in modo proattivo alle sfide poste dalla nuova presidenza Trump, rilanciare l’economia attraverso un robusto programma di investimenti pubblici e privati e far uscire l’Ue dalla stagnazione politica in cui si trova impantanata: si tratta del rapporto sul futuro della competitività europea preparato da Mario Draghi. 

 
Jean Monnet considerava che “l’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”. Seguendo il suo ragionamento, si potrebbe sperare che, di fronte alla crisi che l’uragano arancione potrebbe scatenare, l’Europa finirà per adottare le principali prescrizioni del rapporto Draghi. Ma se è vero che sovente nel passato l’Europa si è forgiata nelle crisi, si possono avere forti dubbi che questo accadrà nella situazione attuale. Come hanno giustamente notato Marco Buti e Marcello Messori sul Sole 24 Ore di domenica 3 novembre, “è ... illusorio cullarsi nella speranza, assai poco strategica, del ‘tanto peggio, tanto meglio’ e prefigurare un colpo di reni da parte della Ue nel caso di vittoria di Trump. In assenza di cambiamenti sostanziali, una nuova presidenza Trump indurrebbe una paralisi decisionale nella Ue: i veti dei sovranisti alla Orbán troverebbero una sponda dall’altra parte dell’Atlantico”.


I “cambiamenti sostanziali” sono però bloccati dalla la debolezza politica di molti dei governi dei paesi dell’Unione Europea, in primis quelli della Germania e della Francia, nonché dal fatto che paesi come l’Ungheria, l’Italia, i Paesi Bassi e anche alcuni paesi scandinavi e dell’Europa centro-orientale non sembrano interessati a procedere verso un’ulteriore integrazione economica e politica dell’Unione Europea e si stanno invece preparando per accreditarsi, ingraziarsi e negoziare in ordine sparso con la nuova Amministrazione americana. 


Si potrebbe obiettare che questa lettura della situazione è troppo negativa. In fondo, una decina di giorni fa a Budapest i leader europei hanno approvato una lunga dichiarazione nella quale si riafferma l’impegno europeo di far avanzare le proposte contenute nei rapporti Letta e Draghi. Tuttavia, sovente, più la dichiarazione è lunga e generica, meno è efficace e politicamente vincolante. E questo sembra essere il caso del comunicato di Budapest: se si escludono la volontà di fare “passi decisivi” per realizzare l’Unione dei Risparmi e degli Investimenti entro il 2026 e la riduzione del 25 per cento delle pratiche amministrative per le imprese per la prima metà del 2025, di impegni concreti ve ne sono ben pochi. Tra di essi spicca nondimeno l’“obiettivo di raggiungere il 3 per cento del pil in spese in ricerca e sviluppo entro il 2030”: peccato che questo fosse l’obiettivo fissato dall’Agenda di Lisbona approvata nel 2000… da raggiungere entro il 2010! Quanto invece alla mobilitazione di risorse pubbliche e private per finanziare investimenti in settori innovativi e ad alta tecnologia, il comunicato si limita all’annuncio di voler “esplorare” e a “far leva su” nuovi strumenti per raggiungere gli obiettivi fissati, segno che sulla misura più importante per fronteggiare il rallentamento economico, la bassa crescita e le probabili ripercussioni negative della nuova presidenza Trump i governi europei restano fortemente divisi. Come ha notato Mujtaba Rahman, dell’Eurasia Group, “dalla dichiarazione non si ha l’impressione che i leader europei abbiano compreso la scala delle sfide rappresentate da una seconda presidenza Trump”.


L’Unione Europea rischia dunque di ritrovarsi nella situazione paradossale di dover fronteggiare uno shock esogeno maggiore (l’uragano arancione) senza riuscire a mobilitare le risorse necessarie per contrastarlo, pur disponendo di un piano credibile che le consentirebbe di farlo, perché una parte importante dei suoi governi e delle sue classi dirigenti è troppo miope, sfiduciata e focalizzata sulle contingenze di breve periodo per rivelarsi capace di comprendere l’importanza della posta in gioco. Una posta in gioco che, nella sua versione più estrema, potrebbe mettere a rischio le democrazie liberali di diversi paesi europei.
 

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