Magazine
L'India per principianti. Racconto di un viaggio
Xanax per la colpa di viaggiare quando gli altri lavorano e clacson che dicono: sono qui con te. La gioia è questa: vestirsi con tutti i colori del mondo, sentirsi una principessa e quindi farsi cento selfie davanti all’acqua sacra
Prima di partire, noi tre abbiamo fatto un gruppo whatsapp: India per principianti, in cui per prima cosa abbiamo messo le foto del pronto soccorso (una parte molto importante dei viaggi, di tutti i viaggi, anche a Francoforte o a Palermo, è il tempo speso in farmacia a comprare medicine e a costruire bagagli paralleli pensati per tutto quello che ci potrebbe succedere lontano da casa, dalla difterite all’orzaiolo al ginocchio della lavandaia). Augmentin, plasil, tachipirina, normix, imodium, melatonina, foil, cerotti, cortisone, brufen, benagol, vitamina C e naturalmente xanax, casse di xanax per superare lo choc di partire in novembre, quando tutto il resto del mondo è seduto alla scrivania o sui banchi di scuola, quando le persone serie si muovono solo se costrette dal lavoro (che favola poter dire: è per lavoro, e invece no, questa volta è solo perché lo voglio, perché desidero l’India da trent’anni e nessuno in tutta la vita mi ha mai detto: ti porto in India, piccola. Io avrei risposto: sei un cretino, ma come parli, ma chi ti conosce, però partiamo, partiamo che il tempo potrebbe finire).
Lo xanax è per le turbolenze, ma soprattutto per i picchi di senso di colpa. Che poi, come tutte le volte, svaniscono appena l’aereo si stacca da terra. Anzi svaniscono nell’attimo in cui gli sconosciuti compagni di volo strappano con gioia il cellophane della copertina e del cuscino, si accomodano il meglio possibile e iniziano a scegliere i film per il viaggio o a chiedere il menù vegano. In quel momento scende una specie di pace (sostenuta comunque dalla consapevolezza di avere tutti i farmaci a portata di mano, perché solo un pazzo scriteriato le imbarcherebbe in stiva) e in fondo il viaggio potrebbe anche concludersi così, penso, nove ore di volo con tutti i film più brutti del mondo, cercando sempre qualcosa con Anne Hathaway per non pensare a niente di perturbante, nove ore e poi di nuovo a Fiumicino al nastro bagagli. E invece il volo a un certo punto finisce a Nuova Delhi, l’India è già qui, anche se è piena notte e non si vede niente tranne una mucca che dorme al centro della strada (porta fortuna! porta fortuna!, ci ripetono tutti, ma poiché in pochi giorni ne vedremo decine e decine, sempre in mezzo alla strada, sempre incuranti del delirio intorno, sempre intoccabili, a volte magre a volte belle grasse, a volte con gli uccelli sulla schiena, a volta un toro in autostrada, allora forse siamo tutti, in India, davvero fortunatissimi, oppure non lo è nessuno e bisogna solo fare attenzione a non investire le mucche, a non salire in moto in più di sei persone, in auto non più di dieci, e a non mangiare troppe cose fritte per strada. Anche questo è un pensiero rassicurante, e quindi insomma lo xanax non ci serve più).
Le collane di calendule arancioni e gialle profumano di buono e tolgono la stanchezza, la città è piena di lanterne perché sono questi i giorni della festa di Diwali (la festa dedicata alla luce di cui non sapevamo nulla, che teoricamente è appena finita, ma ogni volta ci dicono che è finita ieri, anzi l’altroieri, tre giorni fa, dicono: è stata bella, ma la festa continuerà, scemando lentamente, per tutto il tempo del nostro girovagare e in ogni città ci sono le luci, i fuochi d’artificio, l’incenso, i fili colorati e un’aria di stanchezza euforica per le notti danzanti, le collane alle capre, gli occhi dei bambini ridenti e pieni di kajal – lo compriamo subito, nella speranza che anche i nostri occhi risplenderanno un giorno al buio, e compriamo anche certe spezie sottovuoto che la proprietaria del negozio giura mi faranno diventare molto “smart”, servono per il “brain”: ne voglio trecento grammi ma lei suggerisce ridendo che me ne servano almeno tre chili “anche per tutti i tuoi amici”, e io non posso darle torto e compro tutto quello che mi dice perché questo negozio di spezie era di suo padre, mi mostra la foto incorniciata, e lei ha quattro sorelle che lavorano nel negozio e si sono date un nome geniale, “spice girls”). Diwali è in fondo la festa del bene che trionfa sul male: una festa molto ambiziosa.
E qui davvero, tra Dehli e il Rajasthan, ci sembra, soprattutto al tramonto quando le scimmie sono meno agitate, di toccare l’ambizione del bene. Con sorrisi che esplodono giganteschi appena ne ricevono uno piccolo, con una specie di atmosfera avvolgente, una luce prima lattiginosa e dalle quattro del pomeriggio in poi invece dorata, luce gentile, gentile a volte in un modo sfinente ma pur sempre gentile, speranza semplice che sia tutto sul punto di cambiare, in meglio. Mi convinco, ci convinciamo tutte, portando i fiori freschi nei templi, prendendo le benedizioni di vecchi signori scalzi e silenziosi, che tutto sia sul punto di cambiare in meglio. C’è un tale frastuono dappertutto, frastuono di auto, di Tuk Tuk, di motociclette, di umanità che vende, racconta, offre, chiede, di ragazzi che vogliono farci da guide per la città e frastuono di clacson, ma di certo non sono i clacson di Roma. I clacson di Roma dicono: spostati testa di cazzo, i clacson indiani dicono: sono qui anch’io con te. Una notte a Jaipur saliamo su un Tuk Tuk di un ragazzo bellissimo per tornare in albergo, ma lui è simpatico e noi gli chiediamo di farci fare un giro per la città vecchia, ci sembra un’idea molto romantica ed evidentemente anche a lui, che ci porta invece che nella città vecchia a vedere le cose secondo lui più preziose di Jaipur: un campo da golf e un campo da polo. Diciamo ma che bello per non offenderlo, lui è convinto che noi italiane siamo patite del golf ed entusiaste dalla possibilità di giocare a polo sui cavalli o sugli elefanti, non possiamo dirgli che non ce ne frega niente, che ci piacciono i palazzi rosa diroccati e pieni di scimmie, i vicoli stretti e le porte decorate, non possiamo dirgli che siamo un cliché. Facciamo quindi molte foto al campo da golf buio, lui ci chiede se siamo felici, perché lui è felice solo se noi siamo felici, gli diciamo che siamo davvero felicissime del golf. Tranne il golf e il polo, siamo felici davvero e al ritorno cantiamo Battisti tra i clacson della notte che sono uguali ai clacson di mezzogiorno.
Ascoltiamo facendo delle smorfie che vengono ignorate il racconto dei matrimoni combinati, un nostro amico di Udaipur ci dice che sono in calo e che lui si sposerà per amore, ma io voglio sapere in base a quali caratteristiche una famiglia sceglie una moglie per il proprio figlio maschio (visto che non succede mai il contrario). Altezza e pelle chiara, oltre naturalmente alla casta che deve essere la stessa. Altezza e pelle chiara, però lui ha intervistato la futura moglie di suo fratello, durante l’incontro tra le famiglie (a cui non partecipava lo sposo), ognuno poteva fare domande su carattere e abitudini e lui le ha chiesto se avesse degli hobby, lei ha risposto: leggere e viaggiare, e a lui è sembrata una bella cosa. Adesso marito e moglie vanno molto d’accordo, hanno anche un bell’oroscopo di coppia, che è molto importante, peccato che lei abbia smesso di fare l’insegnante e viva con i genitori del marito, mentre il marito lavora nel turismo in una città lontana e quindi lei sta a casa, nella sua stanza, a fare videochiamate. Mia figlia mi tira un calcio sotto il tavolo, non devo dare giudizi occidentali e frettolosi, quindi mangio sorridendo il mio pollo tandoori: siamo molto orgogliose perché ci dicono che ad esempio i turisti cinesi in quel ristorante non sopportano le spezie, chiedono tutto “no spicy” e passano il tempo in bagno, mentre noi mangiamo felicemente da ogni piatto con entusiasmo, al massimo ordiniamo altro pane, ringraziando tutti gli anni passati nei ristoranti indiani di Roma. A proposito di pelle chiara, ogni giorno mia figlia in tutti i templi, le moschee, i palazzi, le fortezze, i mercati e semplicemente le strade piene di gente e di scoiattoli, viene fermata per i selfie.
Un selfie con due amiche, poi un secondo un selfie con tre bambini, poi con una famiglia intera, poi un padre le mette in braccio suo figlio neonato, e tutti insieme si fanno selfie pieni di filtri luminosissimi da postare su Instagram e anche le nonne vogliono farsi il selfie con lei. Piccole folle si radunano intorno a questa diciottenne che odia le foto e si imbarazza e dice che è colpa mia se viene male nei selfie. A volte chiedono un selfie perfino a me e alla mia amica, e certo che diciamo sì a tutti, decine di volte al giorno, con un po’ di disagio verso questo nostro pallore lentigginoso e grigiastro, verso questi capelli troppo sottili che all’improvviso diventano un vanto, un’ambizione. Ma ci abbandoniamo all’India, non critichiamo niente, non chiediamo scusa di niente e non ci arrabbiamo mai, nemmeno quando cercano di venderci tempietti di plastica per ore e ore, nemmeno quando le guide ci portano con stratagemmi nei negozi di pashmine di loro amici invece di lasciarci il tempo di vedere il sole tramontare dietro il tempio delle scimmie: qui migliaia di persone si stanno immergendo (qualcuno si tuffa e poi prega) nelle acque sacre e le bambine portano i fiori e ballano, le madri preparano da mangiare per terra, e tutti con le pietre rosa costruiscono delle casette e le baciano, perché un giorno quelle richieste diventeranno vere case, veri palazzi, vera gioia. Anzi, a noi sembra che la gioia sia già qui, in questo stare insieme e spingersi e accalcarsi e stringersi in quattro su una motocicletta per portare un sacco di farina e preparare il pane per tutti, vestirsi con tutti i colori del mondo, sentirsi una principessa e quindi farsi cento selfie davanti all’acqua sacra, chiedere al papà il permesso di un selfie anche con l’italiana che fotografa i pappagalli, passeggiare con le amiche nella moschea e ridere a ogni passo, a ogni sguardo, a ogni storia sui palazzi delle mogli del marajà (la guida, un uomo di sessant’anni, continua a sospirare per un tempo in cui le mogli del marajà lanciavano fiori dalle finestre del palazzo al suo arrivo, vede le nostre facce e conviene che nessuna lancia più neanche un petalo per l’arrivo del marito).
Una sera insegnano anche a noi a fare il pane indiano, prima acqua sale e farina e poi direttamente sul fuoco del fornello (è il fallimento di ogni fornello a induzione e anche questo mi rende felice), ci sembra di imparare, ci sembra di capire anche come si preparano le lenticchie, ci sembra che tutte queste case, queste strade, questi alberi ci stiano dicendo che possiamo farcela e che ci torneremo ancora. All’alba al Taj Mahal, in volo sopra migliaia di persone, mia figlia nonostante sia ancora quasi totalmente addormentata vede un’aquila reale, ce la indica e dice che è un segno. Segno di che cosa? Segno che la regina ci saluta. Se la regina ci saluta, anche noi salutiamo lei e le lanciamo le nostre collane di fiori, come un tempo al marajà. Lo diciamo alla guida, quella è un’aquila reale! Lui ci fa uno di quei sorrisi disarmanti, bianchissimi, grandiosi, totali: la fortuna delle principianti.
Dalle piazze ai palazzi