Un jet israeliano pronto al decollo (foto Getty)

attacco nel deserto

A Palmira, Israele bombarda i rifornimenti iraniani a Hezbollah

Luca Gambardella

I jet colpiscono lo snodo cruciale delle vie di rifornimento che dall'Iran arrivano ai proxy in Siria e Libano. Decine di militari uccisi, ma l'asse fra Damasco e Teheran è duro a morire

Mercoledì, i jet israeliani hanno bombardato Palmira, nel centro desertico della Siria, per colpire uno degli snodi nevralgici da cui transitano i rifornimenti che dall’Iran vanno a Hezbollah. E’ stato l’attacco israeliano che ha causato il numero di vittime più elevato di sempre in Siria. Il regime parla di 36 morti e una cinquantina di feriti, molti dei quali soldati siriani e delle milizie filo iraniane delle brigate afghane Fatemiyoun. Sembra che il piano fosse stato studiato da tempo, perché alcuni giorni prima i residenti di Palmira avevano fotografato nel cielo le scie lasciate da aerei israeliani che avevano sorvolato la città per pattugliare l’area. Dal Golan, oggi i caccia hanno fatto rotta sulla base del regime di Tiyas, vicino Palmira, e hanno colpito anche depositi di armi. 

L’attacco dimostra la volontà di Israele di distruggere gli avamposti iraniani in Siria spingendosi sempre più all’interno dell’Asse della resistenza. Palmira si trova al centro dell’Autostrada del deserto M-20, la via di comunicazione che i pasdaran usano per il transito delle armi dirette alle milizie filo iraniane. I convogli passano dall’Iraq, varcano il confine di Abu Kamal e arrivano a Palmira prima di proseguire verso Damasco, il Libano e il confine del Golan. 

Solo nell’ultima settimana si sono contati una ventina di attacchi in Siria e questo ha spinto Bashar el Assad a reagire e a  contrattaccare gli americani, che nell’area sono presenti nella base militare di al Tanf e che sono considerati da Damasco i “facilitatori” delle offensive israeliane. Tra i villaggi limitrofi, l’intelligence del regime sobilla da mesi rivolte locali contro le forze alleate degli americani. Questi scontri hanno facilitato la penetrazione delle milizie filo iraniane, che hanno guadagnato terreno sferrando attacchi con droni suicidi contro le basi degli Stati Uniti. 

Per dare l’idea che la presa sul regime siriano resta salda nonostante l’offensiva israeliana, il corteggiamento iraniano nei confronti di Damasco si è intensificato in questi giorni. La settimana scorsa Ali Larijani, consigliere di Khamenei, è andato da Assad per assicurargli che l’alleanza non è scalfita – l’incontro è avvenuto proprio mentre gli  israeliani bombardavano il quartiere di Mezzeh, non lontano dal palazzo presidenziale dove si teneva il colloquio. E mercoledì, il ministro degli Esteri siriano, Bassam Sabbagh, è andato a Teheran, dove Ali Akbar Velayati, altro consigliere della Guida Suprema gli ha detto che “la Siria è l’anello principale dell’Asse della resistenza”.  

Nel frattempo, i russi osservano l’evolversi dello scenario siriano. Il proposito iniziale di Mosca di combattere lo Stato islamico da tempo ha lasciato il posto ad altre priorità, prima fra tutte quella di bombardare le zone rimaste sotto il controllo dei ribelli. La guerra al Califfato, che si va riorganizzando in Siria, resta delegata agli americani, che  di tanto in tanto bombardano le postazioni degli islamisti che il regime siriano e i russi lasciano indisturbate. La speranza che Assad e Putin nutrono in segreto è che il nuovo corso di Donald Trump porti a un ulteriore disimpegno americano dalla Siria. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.