Infodemic
I troll patriottici, le bugie e la disinformazione più grande di sempre in America
"Gli agenti stranieri che hanno cercato di inquinare le informazioni negli Stati Uniti non sono mai stati così tanti come nell'ultima campagna elettorale", ci dice il direttore del Digital Forensic Research Lab, Graham Brookie. Un clima che rischia di interferire con la libera informazione, e dunque anche con la democrazia
Il ciclo elettorale che ha portato alla vittoria di Donald J. Trump è stato quello con il maggior numero di tentativi di influenze straniere, soprattutto attraverso i social, soprattutto tramite campagne di disinformazione. A dircelo è Graham Brookie, che ha lavorato con Barack Obama alla Casa Bianca, e ora dirige il Digital Forensic Research Lab, dedicato alla disinformazione online. Lo abbiamo incontrato nei nuovi uffici a Washington dell’Atlantic Council, l’importante think tank di cui Brookie è vicedirettore. “Nell’ecosistema dell’informazione”, dice Brookie al Foglio, “ci sono due tendenze che difficilmente verranno invertite: l’uomo non ha mai avuto accesso a così tante informazioni, l’uomo non ha mai avuto così tanta possibilità di relazionarsi con gli altri. Queste tendenze a logica dovrebbero creare una situazione positiva. In realtà è l’esatto contrario, come in pandemia con l’infodemic: consumando una massiccia quantità di informazioni, alla fine si fa fatica a distinguere il vero dal falso. Abbiamo inondato il sistema non solo con fatti verificabili, ma anche con un sacco di spazzatura”. E poi si creano le cosiddette bolle. “Si torna al vecchio assioma sovietico: se tutto è possibile, allora niente è vero. Il sistema informativo ora è strutturato in questo modo. Un individuo tende a informarsi con quello che è più velocemente accessibile, da amici e familiari, dalle solite fonti di cui si fida. E così finisce per fare troppo affidamento sul contenuto – contenuto, non informazione! – che conferma i propri preconcetti, perché questo lo farà sentire bene, lo farà sentire intelligente”.
Nessuno vuole sentirsi dire che si sbaglia. “Strutturalmente abbiamo diminuito la nostra capacità di essere in disaccordo, o di dialogare”. E questo ha un impatto sulla disinformazione. “Pensiamo agli anni Dieci”, dice Brookie, “c’era la nozione che i social potessero essere una grande forma democratizzante, come con le Primavere arabe. Ma ora sappiamo che non è così, i social media nello scenario migliore sono luoghi in cui possiamo interagire, ma non lo facciamo, sono soprattutto luoghi dove condividiamo quello in cui crediamo, soprattutto dentro gruppi in cui siamo o di cui vorremmo essere parte. Postiamo per dire da che parte stiamo. Questo minaccia i fatti reali su cui dipende la democrazia”.
Brookie, in base alle analisi del suo centro di ricerca, dice che i contenuti delle fake news riguardano soprattutto cose sulla vita dei tutti giorni delle famiglie, soprattutto questioni economiche. “Gran parte del volume arriva dall’estrema destra. La richiesta di informazioni false o fuorvianti è molto alta. Abbiamo varie categorie di persone che creano i contenuti, e possono farlo per motivi ideologici, perché sono dei truffatori, per motivi economici o per l’attenzione, quella che in termini internettiani si dice ‘per i Lol’, cioè troll che vogliono engagement”. Trump sa usare queste news, anche perché vive in un ecosistema informativo che è pieno di notizie false.
Molti i contenuti che arrivano dall’estero, che hanno cercato di interferire con le elezioni. “Non sono mai stati così tanti come questa volta, con così tanti agenti stranieri che hanno cercato di inquinare le informazioni. Lo ha confermato l’intelligence. Arrivano soprattutto da parte di stati avversari: Russia, Iran e Cina. Il nostro laboratorio cerca costantemente di attribuire le fonti straniere, e a questo giro ne abbiamo trovate tantissime”. Ci si chiede però che impatto possano avere sui cittadini americani. “E’ difficilissimo da misurare, ma ci proviamo. Non possiamo però dire: ‘Questa operazione di tweet da parte dei russi ha spostato tre voti nella contea di Wayne’”. Alcune operazioni partono dai governi altre da troll autonomi.
“Abbiamo trovato agenti che collaborano con il Cremlino. Ci sono entità del dipartimento della Giustizia e del dipartimento di stato che lo confermano. Con altri attori troviamo poi spesso i troll patriottici, che sono estremamente allineati con le entità straniere governative, in particolare in Cina. L’attribuzione lì è più difficile, ma se starnazza come un’anatra e cammina come un’anatra, probabilmente è un’anatra”. Brookie assicura che il governo americano non è mai stato così pronto ad affrontare l’influenza straniera sui social, nonostante, anche il giorno del voto, arrivassero allarmi bomba da parte di indirizzi Ip russi. Una grande forza delle democrazie, spiega l’esperto, è avere l’informazione libera e aperta, ma è anche una sua debolezza di fronte a questi attacchi.