Nelle galere di Hong Kong. Il maxiprocesso alla generazione di leader pro democrazia

Priscilla Ruggiero

Il tribunale di West Kowloon ieri ha assegnato una pena complessiva di oltre 240 anni   a 45 giuristi,  sindacalisti, giornalisti e attivisti. Nella fila sotto la pioggia  è comparso qualche ombrello giallo

Ieri, in poco più di dieci minuti il tribunale di West Kowloon, a Hong Kong, ha assegnato a 45 imputati una pena detentiva complessiva di oltre 240 anni. Sono noti come gli “Hong Kong 47” e sono tra più noti esponenti pro democrazia dell’ex colonia inglese ormai soggiogata dalla legge sulla Sicurezza nazionale imposta dal governo cinese nel giugno 2020: giuristi,  sindacalisti, giornalisti e attivisti, tra cui Joshua Wong, il leader studentesco volto delle libertà negate di Hong Kong ormai divenuto famoso in tutto il mondo e  condannato a quattro anni e otto mesi di carcere. E’  proprio in nome della legge sulla Sicurezza che il processo dei “quarantasette” – diventati quarantacinque quando  lo scorso maggio due attivisti sono stati assolti – si è concluso ieri con una condanna, dopo   quasi quattro anni già trascorsi dietro le sbarre dalla maggior parte degli imputati. Molti erano stati arrestati il 6 gennaio 2021, uno dei tanti giorni bui per la democrazia di Hong Kong, pochi mesi dopo l’introduzione della legge, per il loro coinvolgimento nell’organizzazione di un voto per le primarie per vincere la maggioranza del Consiglio legislativo di Hong Kong  in vista delle elezioni generali  nel 2020.  Benny Tai, ex giurista e professore di legge all’Università di Hong Kong, ha ricevuto la condanna più dura a dieci anni di carcere perché considerato la “mente” dietro la  “cospirazione” per indebolire il governo della città e prendere il controllo del Consiglio legislativo – è questa l’accusa della leadership del Partito comunista cinese che ha definito il gruppo “sedizioso” e quindi  una minaccia per l’ex colonia britannica. Secondo i  giudici,   se il piano degli imputati “fosse stato portato avanti fino in fondo, le conseguenze negative sarebbero state di vasta portata e non meno gravi del rovesciamento del governo”. Il giurista sessantenne  era fra i 31 imputati che si erano dichiarati colpevoli, non perché si ritenessero veramente colpevoli di essere “sediziosi” ma per ricevere una riduzione della pena, che sarebbe stata ridotta di un terzo. Tra chi non si è dichiarato colpevole c’è invece l’attivista e giornalista di Stand News – uno dei tanti media chiusi dopo l’introduzione della legge –  Gwyneth Ho, che è stata condannata a sette anni: sul suo profilo Facebook gestito da alcuni sostenitori, ieri ha scritto un lungo messaggio diviso in trentanove punti: “Il nostro vero crimine per Pechino è che non ci siamo accontentati di giocare a elezioni manipolate. Abbiamo osato affrontare il regime con la domanda: la democrazia sarà mai possibile all’interno di una struttura del genere? La risposta è stata una repressione completa su tutti i fronti della società”. 

 

A differenza della prima apparizione dei quarantasette in tribunale, il primo marzo 2021, ieri non ci sono state manifestazioni, ulteriore segno di come la libertà percepita degli hongkonghesi sia mutata, pervasa dal senso di paura e impotenza. L’attenzione è invece rimasta alta, i cittadini si sono presentati in fila sin dal fine settimana precedente fuori dall’aula per assistere al processo e mostrare che Hong Kong non si è dimenticata di tutti gli audaci tentativi dei manifestanti. “Anche il tempo è triste”, si è sentito urlare tra la folla, alcuni sono stati allontanati mentre nella fila comparivano ombrelli per ripararsi dal vento e dalla pioggia, e non a caso spiccavano gli ombrelli gialli a ricordare le prime proteste del 2014 di cui proprio l’ombrello giallo era diventato il simbolo e di cui Joshua Wong a soli 17 anni era già tra i leader. Ieri, prima di lasciare il banco degli imputati, nel più grande processo dall’imposizione della legge  da Pechino  in un’aula creata apposta per ospitarli tutti  su lunghe panche dietro una parete di vetro, ha detto soltanto: “Amo Hong Kong”. Un giudice ha letto la sentenza, che si è conclusa in meno di venti minuti, riferendosi ai quarantacinque non con i loro nomi ma  con dei semplici numeri. Molti hanno tirato un sospiro di sollievo, perché considerati “soltanto partecipanti attivi” e quindi condannati a pene  che vanno dai quattro anni e due mesi a sette anni e nove mesi: hanno già trascorso oltre tre anni in prigione e  il loro timore era l’ergastolo. “Rispetto alla legge sulla sicurezza nazionale, questa sentenza è moderata, mentre    rispetto ai fatti del comportamento degli imputati le sentenze sono severe”, dice al Foglio Michael C. Davis,  professore di diritto e affari internazionali presso la Facoltà di Giurisprudenza   dell’Università di Hong Kong fino al 2016, che ha scritto un libro proprio sulle libertà negate di Hong Kong, Freedom Undone: The Assault on Liberal Values and Institutions in Hong Kong.  “E’ stata arrestata l’intera opposizione nel nome della legge sulla Sicurezza nazionale, una legge che ha sovvertito Hong Kong dal punto di vista giuridico annientando tutti i valori liberali della città: immaginate se l’opposizione di qualsiasi paese venisse silenziata e arrestata in un colpo solo”.  Secondo   Davis, ciò che è accaduto ieri non riguarda solo Hong Kong, ma fa parte di “una imposizione illiberale da parte di un regime sulla democrazia di Hong Kong”, per questo ci riguarda tutti. La crisi costituzionale non è stata creata dagli attivisti né dai giuristi della città, messaggio che invece vuole far passare Pechino, anzi:   hanno tentato di difenderla, e sono stati arrestati. Una città vibrante e autonoma è stata silenziata, non è più permesso alcun tipo di dissenso, e processi come quello di ieri sono un monito per le generazioni precedenti e future: ciò che è successo a un’intera generazione di leader pro democrazia,  resi prigionieri politici, può accadere a chiunque.  

 

 “Una solida relazione tra Regno Unito e Cina è importante per entrambi i nostri paesi”, aveva detto il leader britannico Keir Starmer  al    presidente cinese Xi Jinping al vertice del G20, soltanto un giorno prima della sentenza. L’intenzione di perseguire una relazione “seria e pragmatica” con Pechino è stata messa in imbarazzo in meno di ventiquattr’ore, poi ieri  Londra  ha pubblicato un comunicato  sulla condanna degli attivisti dell’ex colonia britannica: “Le persone condannate oggi esercitavano il loro diritto alla libertà di parola, di riunione e di partecipazione politica, come garantito dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dalla Legge fondamentale. Il Regno Unito difenderà sempre la popolazione di Hong Kong e tutti gli stati dovrebbero rispettare i propri obblighi internazionali per proteggere questi diritti fondamentali. La condanna odierna è una chiara dimostrazione dell’uso che le autorità di Hong Kong fanno della legge sulla sicurezza nazionale per criminalizzare il dissenso politico”. Nell’incontro con il segretario del Partito comunista cinese, Starmer ha anche sollevato il caso del cittadino britannico e fondatore dell’Apple Daily Jimmy Lai, in carcere da quasi quattro anni: oggi riprenderà anche il suo processo, dopo essere stato rinviato a luglio, la legge secondo cui  è accusato è sempre la stessa dei quarantasette così come l’accusa.

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